venerdì 10 febbraio 2012

UNO DEI CASI BORDERLINE DELL'ARCHEOLOGIA BENEVENTANA: IL PARCO ARCHEOLOGICO DI CONTRADA CELLARULO

Premessa
Il presente lavoro,ha lo scopo di illustrare uno dei più famosi “cold cases” della conservazione e della gestione del patrimonio archeologico della città di Benevento: il Parco archeologico di contrada Cellarulo.
La gestione e,soprattutto,la tutela delle eredità del passato,ingenti,numerose e problematiche in Italia, è materia notoriamente complessa.
Tuttavia,il sempre maggiore disinteresse della classe dirigenziale per i beni culturali,può trasformarsi in una grave perdita per coloro i quali vorrebbero fruirne.
Mi riferisco essenzialmente a due tipologie di fruitori: le generazioni future e quelli che possono essere annoverati nella categoria dei “visitatori”.
La perdita del patrimonio artistico,costituisce un grave pericolo per i posteri,una minaccia imminente, dovuta alla discutibile amministrazione della classe dirigenziale,la cui linea di condotta sembra esser sempre più rivolta ad un’esasperazione dell’aspetto meramente economico.
Sin dalle civiltà più antiche,l’uomo si è dimostrato incline ad onorare la memoria di chi lo aveva preceduto,mettendo a punto delle rudimentali strategie di salvaguardia.
Per contro,le generazioni moderne ,che dovrebbero essere maggiormente avvezze a rispettare le eredità del passato,sembrano aver perso di vista questo ancestrale ossequio.
Tutto ciò appare paradossale, quasi ossimorico, se mettiamo a confronto i mezzi che avevano a disposizione i primi uomini per salvaguardare testimonianze delle epoche precedenti, e quelli che abbiamo a disposizione attualmente.
Ma,nonostante l’evidenza sia palese -nonostante per certi versi sia enigmatica- l’oblio in cui stanno cadendo le tracce del passato,rischia di cancellare per sempre il loro ruolo di memoria visiva.
La civiltà moderna che tanto si boria di essere sinonimo di progresso, sta facendo in modo che  quel passato che andrebbe tutelato,quella storia che nel corso dei secoli ha forgiato il carattere di nazioni e popoli,stia scontando una pena di cui non s’è macchiata.
La predominanza del fattore egoistico su quello altruistico,ha lentamente permesso la perdita di valore della “trasmissione”,tanto concettualmente, quanto fisicamente.
Cos’è oggi un’eredità? La società moderna è adusa a guardare ai lasciti in termini di guadagno materiale,sottostimandone il valore morale ed interrompendo,in questo modo,il naturale processo di “trasmissione nel tempo”.
Naturalmente la conseguenza diretta di questa perdita,è l’annullamento della fruizione da parte dei posteri ed il sempre maggiore degrado in cui vengono lasciate le testimonianze visive del passato.
Quest’ultima conseguenza è particolarmente paradossale se inquadrata in un preciso contesto temporale.
E’ assurdo, ,infatti, veder crollare monumenti resistiti così a lungo nei secoli,solo per una mancata tempestività nell’attuazione di mirati programmi di diagnostica preventiva.
Per quanto riguarda la perdita delle eredità del passato per le generazioni future,bisogna aprire una parentesi sugli incaricati della gestione dei patrimoni archeologici.
La tutela che queste persone dovrebbero attuare è,in troppi casi,assai carente ed inefficiente e si traduce nel malcostume di utilizzare i beni in gestione esclusivamente come fonti di guadagno.
Di solito,se in un meccanismo qualcosa fa difetto,anziché perder tempo in panegirici circa la causa massima del loro mal funzionamento,bisognerebbe agire e cambiare il pezzo difettoso.
Questo in Italia non avviene,non è nell’indole del popolo italiano gestire le situazioni in maniera pragmatica.
In fondo non sto parlando per astrazione, mi sto riferendo  non solo ai problemi specifici del sito che ho preso in esame ma anche ai vari crolli avvenuti a Pompei, alla Domus Aurea ed al Colosseo che cadono a pezzi ed in ultimo,e non meno gravi,i crolli e le infiltrazioni all’Antro della Sibilla Cumana.
Ma della gestione dei beni culturali da parte dei nostri amministratori potremmo aggiungere molto altro.
A titolo informativo,ricordo ad esempio che oltre il 70% del patrimonio culturale “minore”,è chiuso al pubblico o che i magazzini dei musei sono pieni di reperti impolverati che non verranno mai custoditi in una teca e resi fruibili.
La mancanza di praticità italiana ,o meglio,la mancanza di praticità e ,perché no,di logica,da parte dei nostri governanti si riflette nella loro attitudine ad intavolare inutili querelle anziché agire.
Le disquisizioni che,attualmente, tanto li coinvolgono,riguardano la legittimità da parte dei privati di intervenire in difesa del nostro patrimonio artistico,investendo ingenti somme per il loro restauro e la loro tutela futura.
Evidentemente i ministri,i tecnici e tutta la serie di gestori “competenti”,si sentono feriti nell’ orgoglio,un orgoglio egoistico che scavalca qualsiasi logica e sfocia nel divieto,giustificando quest’atto di pura follia con la scusa che un imprenditore privato non è interessato che all’aspetto economico della faccenda.
Un comportamento così temerario sarebbe lecito se lo Stato avesse a disposizione delle cifre maggiori per la gestione dei Beni Culturali ma sappiamo benissimo  che non è così.
Ciò che maggiormente mi stupisce,è che quest’ostilità del governo ad accettare l’intervento di privati nella gestione dei beni culturali,è un atteggiamento unico in Europa.
All’interno degli Stati Europei,infatti,siamo gli unici ad avere una strategia operativa che rasenta il malcostume e l’inefficienza e questo a dispetto del fatto che siamo una delle nazioni col maggior numero di eredità culturali nell’ambito mondiale.
Non dovrei stupirmi,alla luce di tutto questo,che una realtà provinciale,che un tesoro nascosto come Benevento, non sia in grado di gestire l’ingente numero di ricchezze che si trovano sul suo territorio.
Ho scelto il sito di contrada Cellarulo perché riassume un po’ tutti i punti esposti in questa premessa e perché sono recenti le ultime tristi vicende che hanno declassato quella che doveva essere la perla dell’archeologia beneventana, a sito dimenticato tra le sterpaglie ed  i rifiuti,alla mercè di un fiume così vicino che già una volta l’ha gravemente violato e potrebbe rifarlo ancora.

Il Parco archeologico di Contrada Cellarulo :
La storia 
La storia della tutela e della diagnostica archeologica beneventana è alquanto complessa.
Sin dagli anni 80,le campagne di scavo condotte nel centro storico e nella periferia del capoluogo sannita,sono state finalizzate alla delineazione dell’assetto urbano della città antica,cercando di mettere in evidenza –laddove possibile- le diverse fasi evolutive.
Tuttavia,una conoscenza a 360° della struttura urbana e dei monumenti –in particolare quelli di età romana- è un’impresa ardua. Grosse difficoltà provengono,infatti,dalla sovrapposizione delle costruzioni medievali e moderne.  Da sottolineare è la posizione peculiare del sito su cui si sviluppò l’insediamento osco-sannitico e successivamente quello della città romana.
E’ proprio grazie alla favorevole condizione geografica che Roma decise di dedurre la città come sua colonia nel 268 a.C.
La città,infatti, si trovava –allora come oggi- alla confluenza tra i due fiumi Sabato e Calore,su una serie di terrazzamenti naturali,ricoprendo un ruolo chiave per il controllo del territorio e costituendo una sorta di “cerniera” nelle comunicazioni tra il versante adriatico e tirrenico.
Appare chiaro sin da subito, che Benevento,anticamente, doveva costituire uno snodo fondamentale  per gli assi viari che l’attraversavano,come ad esempio la via Appia,la via Latina,la via dell’Alto Sannio,la via Minucia (cui si sostituì in epoca imperiale la via Traiana),la via per Avellino,lungo la vallata del Sabato.
Tutto ciò non deve destare meraviglia, dal momento che era consuetudine romana dedurre colonie in luoghi geograficamente favorevoli. Di fatti,i  nuovi abitanti, decisero di adeguare l’impianto della colonia alla conformazione orografica,esaltandone le caratteristiche fisiche con opere di monumentalizzazione agevolate dai terrazzamenti naturali della città.
E’ stata ormai superata la teoria secondo cui la città romana sarebbe sorta sul versante occidentale –in contrada Cellarulo appunto- andandosi a sovrapporre al primitivo insediamento sannitico.
Da un punto di vista strettamente archeologico l’importanza del sito di Cellarulo,è legata al ritrovamento –nei pressi del ponte Fratto- di un quartiere artigianale, attivo sin dalla fine del IV sec. a.C. e ,dunque,precedente all’epoca della deduzione della colonia romana.
Questo quartiere,stando a quanto emerso dalla campagna di scavo,avrebbe fatto parte di una pianificazione territoriale organica, poiché si trovava a ridosso di una cinta muraria in opera quadrata e in corrispondenza di una delle monumentali  porte di accesso alla città –con buone probabilità quella che si collegava con la via Latina.
In origine, l’area del quartiere artigianale era occupato da una necropoli sannitica, e ciò è stato dedotto dal ritrovamento di corredi funerari abbastanza ricchi.
In seguito, l’area fu adibita a quartiere ceramico,ed è possibile notare una continuità di frequentazione dal IV sec. a.C. fino al II sec d.C.
Dopo le iniziali fasi occupazionali pre- e protostoriche, è durante il IV sec che prende il via un processo insediativo che si concluderà con l’emersione di una nuova struttura proto-urbana che va a sostituire il probabile antecedente insediamento sparso di cui,però, non restano che tracce archeologiche poco reperibili.

DALLA SCOPERTA AI PRIMI PROBLEMI : IL SITO ARCHEOLOGICO DI CONTRADA CELLARULO SALE ALLE LUCI DELLA RIBALTA
Sin dalle prime operazioni di scavo, il sito si mostrava come un sostanzioso concentrato di testimonianze del passato. Quando dalla terra riemergono pezzi della nostra storia passata,di una storia lontana ed affascinante,la notizia riesce a coinvolgere uno svariato numero di persone,dagli addetti al mestiere,ai comuni cittadini,inorgogliti dalla riemersione di una così tangibile memoria storica.
Spesso,però,la determinazione,la passione e l’accoratezza con cui può lavorare un archeologo,uno storico o semplicemente un sovraintendente locale,possono essere fortemente ostacolate e ridimensionate dalle manovre politiche dell’amministrazione cittadina,la quale tenta ripetutamente di far prevalere i propri interessi –nella maggior parte dei casi di natura economica- su quelli culturali.
E così accadde agli inizi degli anni 90,quando la giunta comunale decise di far passare per contrada Cellarulo un asse interquartiere. La notizia di questo progetto suscitò la forte indignazione dei cittadini,i quali unirono le proprie forze e ,in opposizione alla decisione dell’amministrazione comunale,costituirono il comitato civico “ Giù le mani”.
Il comitato,sin dal 1991,iniziò una dura battaglia contro la realizzazione del progetto,battendosi in difesa del sito archeologico ed avvalendosi,per altro, del supporto di esperti del settore.
Infatti,l’associazione,si fece affiancare in battaglia dalla fondazione Lerici,un Ente Morale che dal 1947 opera nel campo delle indagini geoarcheologiche non invasive,composta da uno staff permanente di geofisici,geologi ed archeologi,affiancati da tecnici per il rilevamento dei dati (topografi, tecnici sondatori).
L’intervento della fondazione,diede un contributo rilevante alla lotta civica,in quanto forniva alle amministrazioni cittadine un parere scientifico sul sito di Cellarulo,confermandone l’importanza archeologica e sottolineandone l’assoluta intoccabilità dell’area.
Del resto,lo stesso comitato “Giù le Mani” aveva dimostrato all’amministrazione comunale,quanta determinazione caratterizzasse la propria lotta, raccogliendo 9.880 firme,consegnate all’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti.
Questa raccolta firme,tuttavia,non fu il solo atto concreto compiuto dall’associazione. I cittadini riuscirono a coinvolgere anche le scuole e la risposta più tangibile fu la pubblicazione di un opuscolo divulgativo sull’importanza dei ritrovamenti provenienti dall’area archeologica di Cellarulo.
La determinazione e l’amore di così tanti sanniti e l’appoggio di un valido partner come la fondazione Lerici, portò nel 1992, a far riunire un comitato di esperti del settore archeologico presso il ministero dei Beni Culturali, il quale stabilì che il sito venuto alla luce in contrada Cellarulo,andava tutelato.
Le battaglie portate avanti dal comitato civico,il fatto che tanta gente spontaneamente aderisse e partecipasse alla salvaguardia di un pezzo importante della storia cittadina,riuscì a frenare la folle idea della giunta di costruire un asse interquartiere passante per l’area archeologica anche se,purtroppo,solo temporaneamente.
La campagna di scavo in contrada Cellarulo,andò avanti senza grossi problemi fino al 1996,anno di cambio al vertice  dell’amministrazione cittadina.
La nuova giunta,decise inspiegabilmente di rispolverare il progetto dell’asse interquartiere,a dispetto di anni di battaglie portate avanti sia sul territorio cittadino che in ambito nazionale.
La ridiscesa in campo del comitato civico e del suo seguito,riuscì ad arginare parzialmente la minaccia di cementificazione del sito archeologico,poiché,nonostante tutto,la neo eletta amministrazione comunale, si era resa conto che il sito archeologico di contrada Cellarulo aveva acquistato fama a livello nazionale.
Di conseguenza,la messa in cantiere del progetto dell’asse interquartiere,sebbene avesse sostanzialmente rimarcato la precedente pianificazione,avrebbe dovuto contenere  alcune modifiche. Fu ideata,infatti,la “variante turistica” dell’asse,la quale avrebbe lambito l’area archeologica,allo scopo,probabilmente,di riuscire a portare a termine i propri piani senza scatenare una seconda trance di polemiche e battaglie.
Ancora una volta,la forza di volontà,la determinazione e la tenacia di coloro i quali proprio non potevano permettere che il sito di Cellarulo fosse messo in pericolo,riuscì a far mettere in cassa una piccola vittoria: la consacrazione dell’area a zona d’ interesse archeologico,una sorta di “zona franca”, tutelata da organi competenti e difesa da un gran numero di persone.
Nel corso degli anni e con la prosecuzione dei lavori di indagine, si giunse alla definizione per Cellarulo di area atta a divenire ,in un futuro prossimo, Parco Archeologico.
Questa nuova riqualifica del sito,non era e non è esente da critiche,poiché per essere un parco archeologico a tutti gli effetti,doveva garantire la massima fruibilità di quanto venuto alla luce.
Nel caso di Cellarulo non è così,in quanto lo scavo non ha interessato tutta l’area archeologica.
Non è stata scavata,ad esempio,l’ampia area lungo il crinale della collina,dove importanti reperti giacciono ad una profondità di 4 metri.
Ciò che è venuto fuori da anni di lotte,da anni di lavori sul campo,ha,da un lato consentito di confermare l’importanza archeologica dell’area ma ha,dall’altro, fatto emergere delle problematiche tecniche non ancora risolte.
DALLA DEFINIZIONE DI “PARCO ARCHEOLOGICO” AD OGGI
Il sito è ancora lontano dal poter esser definite Parco archeologico a tutti gli effetti e questo,nonostante gli interventi di diagnostica del 2001. Ulteriori ricerche effettuate tra il 2008 ed il 2009,hanno confermato l’importanza del sito,permettendo l’individuazione dei piani di posa degli edifici databili al 268 a.C., anno di fondazione della colonia latina.
Ufficialmente, il Parco è stato aperto al pubblico il 15 luglio del 2010,con grande enfasi delle istituzioni locali. Tuttavia,la definizione di Parco archeologico applicata alla suddetta area,è per certi versi un po’ troppo fantasioso vista la connotazione che è stata data all’intero progetto.
La zona,infatti, ha più le sembianze di un percorso benessere a pochi Km dal centro cittadino- grazie alla presenza di sentieri e piste ciclabili- piuttosto che di Parco archeologico. Probabilmente,quella di immaginare un parco archeologico come qualcosa di diverso da quello in questione,fa parte di una mia visione romantica ma non credo sia tutta colpa della mia fervida e sentimentale immaginazione. All’apertura del Parco non sono riuscita ad identificarlo come tale in virtù del fatto che i reperti archeologici non era visitabili,che giacevano ancora sotto dei teli.
Questo problema tecnico,era dovuto al fatto che, dopo 19 anni di scavo, non erano state fatte né opere di restauro, né di tutela. L’unico riferimento alla finalità “archeologica” del Parco era -ed è- un cartello installato a ridosso degli scavi,illeggibile perché posizionato troppo in alto per un visitatore di media statura ma che ,a suo modo,fornisce qualche informazione ai turisti.
Nel cartello si legge che : “La cinta urbica racchiude un ampio quartiere con isolati orientati nordest-sudovest a carattere residenziale ma soprattutto produttivo, come indicano le numerose fornaci attive fino al II-III sec. d.C. L’estensione della città romana fino all’ansa del fiume Calore in contrada Cellarulo,è stata confermata da ritrovamenti e scavi degli anni 1990-1998 e dalle attività di diagnostica archeologica condotta nel 2001. Le ricerche del 2008-2009 hanno ampliato le conoscenze portando tra l’altro all’individuazione dei piani di posa degli edifici risalenti alla fondazione della colonia latina del 268 avanti Cristo.”
L’inefficienza della cartellonistica a ridosso del sito, è testimoniata anche dalla scarsa leggibilità della mappa dei reperti rinvenute con relative datazioni storiche.
Come se non bastasse,la modica cifra spesa per la realizzazione del Parco – 2,2 milioni di euro- non dev’essere bastata a rendere soddisfacente la fruibilità del sito,come non devono essere stati sufficienti per una pianificazione strategica di interventi di tutela.
Il 2010 è stato un anno particolarmente significativo per il sito. Esso è stato non solo l’anno di inaugurazione ma anche un nefasto periodo di vessazione climatica.
Nel novembre del suddetto anno,infatti, un grave allagamento ha interessato l’area archeologica. Come ho riportato sopra,lo scavo sorge in prossimità dell’ansa del fiume Calore e,non essendo stata sottoposta ad adeguate strategie di tutela, è stata colpita in maniera seria dall’esondazione del fiume.
Il fiume Calore, in occasione di precipitazioni piovose consistenti, ha più volte evidenziato la sua necessità di spazi di esondazione e il Parco Archeologico,suo malgrado,si trova proprio in quegli ambiti territoriali. La posizione del sito nella penisola fluviale,posta alla confluenza dei due grandi corsi d’acqua Sabato e Calore,oltre alle sue peculiarità archeologiche,costituisce anche una zona particolarmente interessante da un punto di vista naturalistico per la presenza di un bosco igrofilo e per la vicinanza ad un’ansa fluviale inondabile.
In data 11 novembre 2010, il Parco Archeologico ha subito uno dei danni maggiori mai ricevuti dalla sua venuta alla luce.
L’intera area archeologica, per tutto il tratto che corre in trincea, è stato completamente inondato e,l’esondazione fluviale, non ha risparmiato nemmeno i reperti archeologici. A danno avvenuto,cercare un responsabile serve a ben poco. Ciò che palesemente indigna,è la mancata esecuzione in tutti questi anni,di adeguate e mirate opere di difesa idrogeologica.
Per cercare di salvare le apparenze, l’amministrazione comunale ha pensato bene di provvedere-a danno avvenuto -alla messa a punto di un piano di tutela idrogeologica. Questo,tuttavia,non può redimerli da critiche e da accuse di incompetenze.
Com’è possibile che nel corso degli anni non sia mai stata presa in considerazione l’ipotesi di dover mettere in atto degli interventi di tutela preventiva? Sostanzialmente, la grave colpa di cui questi incompetenti gestori della “cosa pubblica” si sono macchiati, è quella di aver fatto prima l’opera e ,solo successivamente, di aver indetto un bando d’appalto per i lavori di tutela.
Questi errori di tempistica sono costati cari al sito archeologico. Stiamo parlando di un’area insediativa molto antica,di un patrimonio inestimabile,il cui danno non è riparabile. Ancora una volta chi amministra,sembra totalmente disinteressato alle conseguenze delle sue omissioni. I responsabili dovrebbero pagare ma sono troppi e soprattutto sono intoccabili,com’è da copione in Italia,per certi malfattori non ci sarà alcuna condanna. Per questi assassini del patrimonio e delle eredità culturali,ci sarà sempre l’immunità.
Tuttavia, se le sciagure dell’area archeologica si fermassero a questi gravi danni,sapremmo già in che direzione lavorare per evitare che si ripetano. Non è così. Ancora una volta il sito è stato umiliato dall’incompetenza gestionale delle amministrazioni,concretizzatasi nella chiusura del Parco il giorno 21 Dicembre 2011.
Io,proprio in quella giornata, mi ero recata per un sopralluogo in contrada Cellarulo,allo scopo di scattare alcune foto per il presente lavoro.
Mentre mi avviavo verso l’area archeologica,sono stata fermata da alcuni funzionari comunali i quali mi hanno invitato a lasciare il Parco in quanto,contemporaneamente,il Pubblico Ministero stava mettendo sotto sequestro l’area. Di conseguenza,i cancelli dovevano essere chiusi.
L’impiegato comunale non mi seppe fornire una motivazione alla chiusura,forse non poteva,essendo la notizia ancora ufficiosa. Tuttavia, io riuscì a fare una fotografia alla pavimentazione in pietra che dall’ingresso di via Grimoaldo Re,conduce sino all’area archeologica.
 
Inizialmente, imputai la chiusura a questa serie di danni visibili alla pavimentazione in quanto,come ricordavo precedentemente,l’area era stata adibita,oltre che a Parco archeologico,anche a percorso benessere,grazie alle piste pedonali e ciclabili. Per gli abitanti del posto, infatti, contrada Cellarulo è sinonimo di luogo d’incontro di podisti, di persone desiderose di passeggiare in mezzo alla natura in compagnia del proprio cane.
Difficilmente potevo immaginare che il motivo della chiusura del Parco fosse legato a questioni burocratiche,come poi si è rivelato. Le motivazioni riguardavano ,infatti,la scadenza del contratto di guardiania che il Comune aveva stipulato con una cooperativa privata. Riassumendo, l’area è stata chiusa per un termine di collaborazione con una cooperativa di guardiani e fin qui,è tutto chiaro ma il punto è che una chiusura per queste motivazioni,può essere comprensibile allorquando contrada Cellarulo fosse stata esclusivamente adibita a pista ciclabile e pedonale. Non è altrettanto lecito se contrada Cellarulo viene considerata Parco Archeologico,o meglio il luogo nel quale è venuto alla luce l’antico quartiere ceramico cittadino,non è corretto chiudere per tali motivazioni un’area di interesse culturale. Allo stato attuale,un visitatore esterno,un qualsiasi forestiero giunto per puro caso nei pressi della suddetta area,si troverebbe di fronte ad un cancello saldamente sigillato da un pesante lucchetto e l’unica cosa che potrebbe ammirare nonostante lo sbarramento,è il miracolo della natura,che ogni giorno di più cresce rigogliosa tra gli scavi .

■ CONCLUSIONI
Lo scopo di questo lavoro,credo che oramai sia stato reso noto. Volevo far luce su una delle questioni più spinose , nell’ambito dei beni culturali,inerenti alla città di Benevento. Ancora una volta,le insolvenze amministrative,hanno permesso lo svilupparsi di una criticità civica,fortemente corroborata dalle modalità di gestione tutt’altro che encomiabili.
E’ questa,l’ennesima mortificazione subita,l’ennesimo scempio che va a gravare sul nostro patrimonio artistico,già fortemente minacciato dalla costante oscillazione tra il malcostume ed il degrado. Questo lavoro non è nato e non vuole essere come una sorta di j’accuse nei confronti degli enti preposti alla tutela del patrimonio culturale locale,è soltanto una risposta risentita alla ferita che costantemente rinnovata,nostro malgrado. In questo scenario di miseria,di restrizioni obbligate,ci stanno privando di tutto. Costi,tagli,operazioni economiche,hanno ogni giorno di più il compito di impoverirci,di farci sentire il popolo dei senza futuro. Dicono che la situazione sia mondiale ma questo non ci consola. Stiamo diventando poveri,lo siamo già,lo saremo sempre di più. Chi ci amministra,porta avanti il suo programma di depauperazione senza scrupoli. Dal canto nostro,ci piegheremmo sotto le logiche di questa inumana fase dell’economia mondiale,se non progettassimo una strategia di difesa. Non possiamo sconfiggere questa fitta rete di interessi economici e politici senza porci degli obiettivi,dei piccoli traguardi da raggiungere impiegando tutte le nostre forze. Possiamo unire le nostre voci,possiamo formare una catena umana per fermare l’avanzare dello stato di ignoranza che tanto favorirebbe la classe governante. Possiamo essere scudo che protegge quello che ci è rimasto da ulteriori scempi,dalle ennesime mortificazioni. Il degrado è morte. Lasciare nel degrado le eredità del passato vuol dire uccidere una seconda volta coloro che li costruirono. Personalmente,non posso e non voglio permettere che una reazione a catena causata dall’ingordigia umana,ricada sulla memoria storica,sulla finestra spazio temporale che permette di affacciarci su epoche lontane. Non acconsentirò tacitamente al colpo di grazia per queste malandate tracce venute alla luce dalla terra incolta. Se lo scopo di chi ci governa è la repentina trasformazione dei Beni Culturali in Mali Culturali,ha trovato nella sottoscritta un’acerrima nemica,un’idealista che lotterà con tutte le sue forze e nonostante i pochi mezzi a disposizione,per cercare di sensibilizzare la coscienza civica ed attivare un programma di difesa militante.



                                                                                                                              Manuela Romano

venerdì 20 gennaio 2012

Direct dating of Early Upper Palaeolithic human remains from Mladeč

From Nature 435, 332-335 (19 May 2005) | doi:10.1038/nature03585; Received 24 October 2004; Accepted 22 March 2005



Eva M. Wild1, Maria Teschler-Nicola3, Walter Kutschera1, Peter Steier1, Erik Trinkaus4 & Wolfgang Wanek2
  1. VERA (Vienna Environmental Research Accelerator) Laboratory, Institut für Isotopenforschung und Kernphysik der Universität Wien, Währingerstraße 17,
  2. Department für Chemische Ökologie und Ökosystemwissenschaften, Universität Wien, Althanstrasse 14, A-1090 Wien, Austria
  3. Anthropologische Abteilung, Naturhistorisches Museum Wien, Burgring 7, A-1010 Wien, Austria
  4. Department of Anthropology, Washington University, Campus Box 1114, St Louis, Missouri 63130, USA
Correspondence to: Eva M. Wild1Maria Teschler-Nicola3Correspondence and requests for materials should be addressed to E.M.W. (Email: eva.maria.wild@univie.ac.at) and M.T.-N. (Email: maria.teschler@univie.ac.at).
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The human fossil assemblage from the Mladeč Caves in Moravia (Czech Republic)1 has been considered to derive from a middle or later phase of the Central European Aurignacian period on the basis of archaeological remains (a few stone artefacts and organic items such as bone points, awls, perforated teeth)2, despite questions3 of association between the human fossils and the archaeological materials and concerning the chronological implications of the limited archaeological remains4. The morphological variability in the human assemblage, the presence of apparently archaic features in some specimens, and the assumed early date of the remains have made this fossil assemblage pivotal in assessments of modern human emergence within Europe5, 6, 7. We present here the first successful direct accelerator mass spectrometry radiocarbon dating of five representative human fossils from the site. We selected sample materials from teeth and from one bone for 14C dating. The four tooth samples yielded uncalibrated ages of ~31,00014C years before present, and the bone sample (an ulna) provided an uncertain more-recent age. These data are sufficient to confirm that the Mladeč human assemblage is the oldest cranial, dental and postcranial assemblage of early modern humans in Europe and is therefore central to discussions of modern human emergence in the northwestern Old World and the fate of the Neanderthals.

venerdì 16 dicembre 2011

I TEMPLI MALTESI DELLA DEA MADRE

L'isola di Malta venne raggiunta dai primi gruppi di colonizzatori intorno al 5000 a.C. Erano agricoltori e allevatori neolitici provenienti dal villaggio di Stentinello presso Siracusa, che fabbricavano contenitori in ceramica decorati da caratteristiche figure geometriche riempite di pasta bianca. Nei secoli seguenti altre genti giunsero dalla Sicilia, riconosciute dagli archeologisempre per l'uso di specifiche classi di ceramica. Intorno al 3600 a.C. ebbe inizio nell'isola di Gozo la costruzione dei templi megalitici di Ggantija (nome locale che significa "torre dei giganti"), cui seguì una fase di transizione (3300-3000 a.C.) cui appartiene a Malta il tempio-sepolcro sotterraneo di Hai Saflieni; quindi, fino al 2500 a.C, la "civiltà dei templi" maltese raggiunse l'apogeo, innalzando i complessi religiosi di Mnajdra, Hagar Qim e Tarxien, ricchi di decorazioni a spirale e di elementi che confermano l'appartenenza al culto mediterraneo della Dea Madre. Poi, improvvisamente, l'arcipelago maltese fu abbandonato da tutti i suoi abitanti per cause sconosciute. Per un migliaio di anni i nuovi arrivati utilizzarono i templi di Tarxien per seppellirvi i loro morti ed eressero semplici dolmen, del tipo di quelli presenti nel Salento (probabile indizio della loro provenienza dalla Puglia), quindi intorno al 1500 a.C. una quarta invasione dell'isola portò altre genti -ancora dalla Sicilia - che si insediarono in villaggi fortificati. Sembrano risalire a quel periodo le misteriose "carreggiate", i profondi binari che solcano la superficie rocciosa delle isole. Infine fu la volta dei Cartaginesi, dei Fenici, dei Romani. La splendida civiltà dei templi megalitici era ormai solo un lontano ricordo inghiottito dai millenni.
Capolavori di architettura preistorica
templi megalitici di Malta sono le prime costruzioni complesse progettate e realizzate dall'uomo neolitico nel bacino del Mediterraneo. Maestosi e articolati in più ambienti, rispondono a schemi creativi e innovativi costanti, mai visti prima di allora. La loro forma tipica si è ripetuta per oltre un millennio, pur con le aggiunte dovute all'evoluzione architettonica e alle esigenze del culto. Un possente muro perimetrale esterno, di solito a forma di "D" rovesciata, racchiude nel suo interno un numero di camere variabile da due a sei, organizzate simmetricamente a coppie opposte o "a trifoglio", affacciate su un corridoio oppure su un cortile centrale (o su entrambi). Le pareti delle stanze presentano forma semicircolare absidata od ovale (la forma tonda domina ogni parte dei templi, totalmente privi di spigoli vivi) e sono delimitate da murature megalitiche distanti anche cinque metri dai muraglioni perimetrali: lo spazio intermedio è sempre riempito da terra e detriti pietrosi. Nei cortili, altari, enormi tazze, vasi e statue costituiscono gli apparati necessari per lo svolgimento dei riti religiosi, conclusi da sacrifici di animali. Le facciate monumentali concave a esedra dei templi prospettano su ampi piazzali esterni; spesso un sedile di pietra corre alla base delle pareti, ai lati dell'ingresso trilitico formato da blocchi giganteschi; la copertura era assicurata da tetti in legno, di cui non vi è più traccia. Gli enormi blocchi calcarei impiegati per i muri perimetrali pongono interrogativi a proposito del loro taglio e del trasporto, perché in quel tempo gli antichi Maltesi disponevano soltanto di strumenti litici.
Le meraviglie dei templi di Malta
Secondo la leggenda, i templi megalitici di Malta furono costruiti da un gruppo di giganti semidei, i soli in gradi di estrarre e trasportare gli enormi blocchi di calcare di cui sono fatti. Ai margini dell'altipiano di Xaghra, nell'isola di Gozo, i due templi del complesso di Ggantija sono circondati da un muraglione oggi alto sei metri, formato da ciclopici monoliti. Il tempio posto a sud è il maggiore e il più antico. Rispetto allo schema a trifoglio dei monumenti innalzati in precedenza (Kordin, Ta' Hagrat), questo tempiopresenta per la prima volta cinque ambienti absidati. Un'imponente entrata formata da due file di ortostati perfettamente squadrati immette in una coppia di camere opposte; un secondo ingresso simile, posto di fronte al precedente, comunica con tre camere maggiori aperte a trifoglio su un cortile, pavimentato come i corridoi. L'ambiente più grande misura 10,50 metri per 9 e sul fondo è occupato da un altare formato da lastre calcaree orizzontali sostenute da pilastrini, diviso in tre parti da due alti monoliti verticali. Le pareti interne delle stanze sono inclinate verso l'interno e dovevano essere intonacate e dipinte; perforazioni nei blocchi monolitici segnalano l'esistenza di porte, altri presentano tracce di rilievi a spirale o sono ricoperti da forellini praticati con un trapano; oltre agli altari, l'apparato di culto comprende nicchie, tabernacoli, vasi in pietra, spioncini rettangolari a feritoia aperti nei blocchi e fori nel pavimento, tutti elementi che indicano una raffinata e pianificata capacità costruttiva. Il tempio minore settentrionale appartiene allo schema a quattro camere quasi semicircolari opposte a coppie, con impiego di blocchi concavi sui bordi superiori degli ingressi e su quelli interni destinati a sostenere l'architrave, migliorandone la stabilità. 
Hal Saflieni
Nell'isola di Malta, nei pressi dell'abitato di Paola, l'ipogeo di Hai Saflieni è la più enigmatica e originale realizzazione della civiltà dei templi, che probabilmente accomunava il mondo dei vivi a quello dei morti, affidati entrambi alla dea della fertilità. Esso è formato da un complicato labirinto, articolato su tre piani sotterranei, di camere per sepolture collettive che accolgono i resti parziali di 6000-7000 individui, con corridoi e ambienti riservati al culto, profondi 10 metri e mezzo. Gli ingressi trilitici, la forma circolare delle stanze, le decorazioni spiraliformi in ocra rossa di pareti e soffitti arrotondati, altari e nicchie, consentono di comprendere meglio la struttura e gli arredi dei templi in superficie. Al secondo piano dell'ipogeo s'incontra la cosiddetta "Stanza dell'Oracolo", un locale rettangolare con una piccola nicchia ricavata ad altezza d'uomo nella parete, dalla quale le parole pronunciate o anche solo sussurrate vengono diffuse da una formidabile acustica. Era forse questo il trucco di cui si serviva il sacerdote per far giungere i suoi messaggi alla sacerdotessa raffigurata nella statuina della Signora Dormiente? La parte centrale dell'ipogeo è costituito dalla "Sala d'Aspetto" che immette nella "Camera Principale", da cui si passa nel "Sancta Sanctorum", riservato al culto: tutti gli ambienti presentano finti ingressi trilitici, architravi tondeggianti e tetti a pseudovolta. Si ritiene che Hai Saflieni sia stato un luogo di culto non aperto ai fedeli, ma destinato a particolari cerimonie e alle sepolture secondarie della popolazione.
Mnajdra e Hagar Qim
Sulla costa occidentale di Malta, di fronte all'isolotto di Filfola, i tre templi di Mnajdra, appartenenti a periodi differenti, si affacciano su un cortile semicircolare da due diversi livelli. In alto vi è il più antico, un tempio a trifoglio della fase Ggantija, in basso quello meglio conservato, con una bella facciata, concava e fitte perforazioni al trapano su due blocchi calcarei interni e alcuni spioncini a feritoia che comunicano con probabili "stanze dell'oracolo". Il tempio centrale, costruito per ultimo, ha un triplo ingresso monumentale e presenta su un blocco la curiosa scultura del tempio completo del tetto. Nel tempio meridionale, risalente alla più antica fase di Tarxien, la prima coppia di camere presenta grandi nicchie alle pareti e una struttura trilitica densamente decorata da perforazioni al trapano; la successione di alcuni corsi orizzontali di blocchi calcarei aggettanti verso l'interno conferma che gli ambienti erano coperti da tetti a pseudovolta. Forse la firma dell'architetto che lo innalzò? A poca distanza, in posizione dominante, si trova il maggiore complesso megalitico dell'isola, costituito dal tempio di Hagar Qim, più volte ampliato. La monumentale facciata comprende un monolite alto cinque metri che emerge dalla muratura e il maggiore lastrone calcareo conosciuto, alto sette metri e pesante 20 tonnellate; alcune stanze che prospettano sul cortile interno sono ornate da altari a forma di fungo sostenuti da pilastrini ricoperti di perforazioni, da blocchi calcarei traforati e nicchie, che hanno restituito statuine femminili fra cui la famosa "Venere". La camera più meridionale contiene al posto dell'altare un monolite cilindrico fallico, simile a un secondo collocato all'esterno, probabile indizio che questo tempio era dedicato al culto della fertilità.
Tarxien
Il complesso dei quattro vastissimi templi di Tarxien, innalzati fra il 3300 e il 2500 a.C, rappresenta l'apogeo della civiltà maltese e segna anche la sua repentina conclusione. Il tempio meridionale presenta una facciata a esedra lunga 34 metri e quattro stanze absidate che hanno restituito blocchi calcarei decorati da sculture a spirali oculiformi e di animali, gli stessi che venivano sacrificati usando il pugnale sacro di selce ritrovato nella nicchia presso un altare. Affacciata su un cortiletto, vi era la grande statua attribuita alla Dea Madre, di cui rimane solo la parte inferiore. Fra gli altri templi di Tarxien, quello centrale a sei camere fu l'ultimo a essere costruito; il vasto cortile pavimentato accoglie un grande focolare rotondo in pietra, mentre una camera è occupata da un'enorme tazza, pure in pietra, forse destinata a contenere gli animali sacrificati; altri ambienti sono accessibili scavalcando i blocchi posati sul pavimento e inseriti in ortostati verticali ornati da rilievi a doppia spirale, forse segno che in quei locali potevano entrare solo i sacerdoti.
Una fine misteriosa
Intorno al 2500 a.C. la popolazione dell'arcipelago maltese doveva superare i 10 000 abitanti. All'improvviso le isole si spopolarono, i villaggi furono abbandonati e occupati poco dopo da nuove popolazioni, che utilizzarono i templi di Tarxien per un migliaio d'anni come cimitero. Anche se non è del tutto escluso che questa invasione possa essere stata una delle cause dell'abbandono, poiché non si è trovata traccia di violenze né di distruzioni, prevale la tesi che i nuovi arrivati abbiano trovato le isole deserte. Le ipotesi avanzate sulle cause di tale evento misterioso sono molteplici: un prolungato periodo di siccità, l'aumento della popolazione e la mancanza di terre da coltivare, una micidiale epidemia, una rivolta contro la classe sacerdotale divenuta troppo potente, la volontà espressa dalla divinità venerata nei templi... Forse non sapremo mai cosa accadde realmente: in ogni caso si trattò di un avvenimento straordinario, che cancellò una civiltà evolutissima, rimasta confinata per oltre mille anni nelle piccole isole maltesi, dove manifestò una sorprendente capacità costruttiva autonoma e una fortissima motivazione religiosa rivolta al culto della Dea Madre. Ma perché templi simili esistono soltanto a Malta e a Gozo? È verosimile l'ipotesi che fossero santuari frequentati dai navigatori mediterranei? A giudicare dalla loro esclusività, sembrerebbe fossero riservati al culto locale; di sicuro i costruttori degli ineguagliati templi megalitici non venivano dall'esterno, perché altrimenti esisterebbero anche altrove monumenti simili. Mentre venivano innalzati i templi di Malta, a Stonehenge si compivano le prime due fasi di costruzione del tempio e a Carnac sorgevano imponenti monumenti megalitici. Tale contemporaneità ha alimentato discussioni sul ruolo maltese nella diffusione del megalitismo. Poiché è accertato che questo fenomeno nacque e si sviluppò in Bretagna, Malta può essere stato il centro di rielaborazione e di rilancio di questa ideologia al centro del Mediterraneo, accolto e manifestato in forme diverse. Ma chi portò a Malta il messaggio megalitico dalle coste atlantiche?
LE ENIGMATICHE "CARREGGIATE"
Le isole maltesi offrono un'altro enigma: le "carreggiate", o "binari", o cart-ruts (sotto). Sono dei percorsi con sezione a "V", formati da due solchi paralleli posti alla distanza di 1,30 metri e profondi in media 6-10 centimetri, che attraversano in più punti la superficie rocciosa di Malta e Gozo, sia in zone pianeggianti, sia su erte colline. Straordinarie le zone di "scambio" tra diversi binari, proprio come avviene nelle stazioni; eccezionali i solchi che da alcune spiagge si inabissano in mare. Il fatto che alcuni binari siano stati tagliati da tombe puniche lostra la loro anteriorità, ma non si sa di quanto; la presenza di solchi che da antiche cave di tufo conducono alle porte di villaggi dell'Età del Bronzo indicherebbe l'uso dei binari: vi scorrevano le ruote di carri o i pattini di slitte per il trasporto dei blocchi impiegati nella costruzione delle case.
LE STATUE FEMMINILI DI MALTA
La colossale statua femminile restituita dal complesso di templi di Tarxien è incompleta, ma lascia intuire che doveva essere alta circa tre metri. Nel cortile del tempio meridionale, un basamento decorato con motivi spiraliformi e geometrici sostiene la parte inferiore della statua, formata da due grasse gambe e una lunga sottana a pieghe; i piedi sono invece ben proporzionati. Il suo aspetto completo si può intuire da alcune statuine femminili acefale del tempio di Hagar Qim, una seduta e l'altra in posizione eretta: entrambe raffigurano divinità obese, con volutaaccentuazione delle proporzioni delle cosce e dei glutei. L'intenzionalità di tali sculture è provata dalla presenza di un'altra statuina, chiamata Venere di Malta: nella sua nudità offre un corpo generoso con grandi seni, ma realistico e ben proporzionato. Enigmatica è invece la statuina della Signora Dormiente dell'ipogeo di Hai Saflieni, una grassa figura femminile a busto scoperto, vestita con una gonna a pieghe, ritratta mentre dorme su un lettino con la testa appoggiata sul braccio piegato. Ma i templi megalitici maltesi erano ornati anche da simboli fallici e rilievi di animali (capre, montoni, buoi, tori, maiali) che provano l'adesione a un culto completo della fecondità. La presenza ricorrente del simbolo della spirale (specialmente a Tarxien), semplice, doppia o con quattro ricche volute contrapposte, viene considerata dagli studiosi la sintesi grafica del culto della vita.

IL MESOLITICO DELL'ITALIA SETTENTRIONALE II

Arte e spiritualità.

Piuttosto diffuso durante il Mesolitico è l'utilizzo di sostanze coloranti e di oggetti ornamentali. Si tratta per lo più di conchiglie marine o d'acqua dolce, di vertebre di pesci, canini di cervo, frammenti di ossa o ciottoli, tutti forati per la sospensione come ciondoli di collane o bracciali o per essere cuciti ai capi di vestiario. Essi sono ben documentati a Romagnano III, Pradestel, Vatte, Gaban, Bus de la Vecia, riparo Frea IV e nella grottina dei Covoloni del Broion. Manufatti artistici sono stati rinvenuti al Riparo Gaban, sito in cui oggetti analoghi sono documentati anche nei livelli neolitici. Essi erano stati deposti all'interno di buche rimaneggiate già in età mesolitica (vi si trovano infatti mescolati manufatti sauveterriani e castelnoviani). Una figura femminile è stata ricavata a bassorilievo dalla sezione apicale di un ramo di corno cervino forata longitudinalmente. Una gola al di sotto dell'apice consentiva forse la sospensione, mentre la perforazione longitudinale poteva fungere da immanicatura per uno strumento. Le superfici sono fortemente usurate e combuste. Un oggetto analogo presenta incisioni parallele, motivi a zig-zag e triangoli e residui di ocra rossa. Vi sono poi cilindretti ricavati da sezioni di diafisi di ossa lunghe, decorati a tacche, punti, zig-zag, reticoli. Alcuni punteruoli e un metacarpo di orso decorati a tacche e con tracce d'ocra sono stati recuperati anche a Romagnano Loc III.
Si conoscono inoltre alcune sepolture: la prima è stata messa in luce nel Riparo di Vatte di Zambana; si tratta di un individuo di sesso femminile, alto ca. 1,52 m. e dell'età di cinquant'anni circa. La testa era appoggiata ad un gradino formato dalla roccia e il volto era rivolto a sinistra. Il tronco era adagiato in una fossa poco profonda, con orientamento NW-SE. Le braccia erano stese parallelamente ai fianchi, gli avambracci flessi e le mani si riunivano all'altezza del pube. Un tumulo di pietre ricopriva cranio e tronco. Non è stato ritrovato alcun oggetto di corredo, ma si è notata la presenza di qualche frammento d'ocra al di sotto del cranio. Le datazioni radiometriche ottenute per questa sepoltura oscillano tra 6050±110 e 5790±150 a.C.
Lo scheletro documenta la frattura dell'avambraccio destro guarita senza esiti e una seconda frattura al gomito sinistro guarita in pseudo-artrosi serrata, con conseguenti gravi deformazioni.
Una seconda sepoltura è stata recentemente recuperata nel sito di Mondeval de Sora, in comune di S. Vito di Cadore, a 2150 m. di altitudine. Sotto l'aggetto di un grande masso erratico si sono trovati livelli d'occupazione del Mesolitico antico e recente, dell'età del Rame e di epoca medievale. Nel 1986 fu messa in luce una sepoltura in fossa di età castelnoviana (5380±50 a.C.). L'inumato era un uomo adulto, di circa quarant'anni, alto 1,67 m. e di costituzione robusta. La parte inferiore del corpo era ricoperta di pietre selezionate (pietre vulcaniche e marna calcarea). La mano sinistra, posta verticalmente sul fianco esterno, presentava dita ripiegate come se impugnassero qualcosa. Sul lato destro vi erano tracce di ocra rossa, su quello sinistro un gruppo di 33 reperti, tra cui alcuni strumenti di selce, ciottoli di calcare, un arpione e altri manufatti in osso e corno. Poco più in basso, all'altezza della mano sinistra si sono recuperati altri due gruppi di oggetti litici o in zanna di cinghiale, alcuni dei quali coperti di mastice, e due agglomerati di sostanza organica: il primo costituito per lo più di resine, il secondo di cera d'api e propoli. Si può pensare che questi gruppi di oggetti fossero stati deposti all'interno di contenitori e che costituissero la dotazione d'uso quotidiano.
Facevano inoltre parte del corredo 3 lame in selce gialla, collocate ciascuna su una spalla e la terza sotto il cranio e 7 canini atrofici di cervo; un punteruolo posto sullo sterno e uno tra le ginocchia servivano forse a chiudere una sorta di sudario in pelle.
Lo studio dello scheletro ha evidenziato la frattura di un dito della mano destra perfettamente guarita e una osteopatia deformante all'emitorace sinistro. L'uomo mesolitico di Mondeval de Sora appartiene alla razza di Cro-Magnon, già presente in Europa durante il Paleolitico Superiore.

IL MESOLITICO DELL'ITALIA SETTENTRIONALE

Ambiente ed economia.

Lo studio dei pollini, dei carboni, dei resti micro-e macro-faunistici raccolti in ciascun livello nei siti pluristratificati di Romagnano, Pradestel e Vatte di Zambana (TN) ha permesso di delineare l'evoluzione del clima e dell'ambiente dall'inizio dell'età olocenica.
L'area della Val d'Adige sembra essere stata interessata da un ritiro dei ghiacciai già durante il tardoglaciale; a quell'epoca un grande bacino lacustre era racchiuso tra le morene della conca di Trento. L'aumento progressivo della temperatura, non accompagnato da un analogo incremento nella piovosità, causò l'insorgere di un clima caldo e arido, con la conseguente scomparsa della flora e della fauna pleistoceniche e determinò la diffusione di associazioni faunistiche e floristiche mediterranee anche in aree montane. Le fasi più antiche del Mesolitico, ricadenti nei periodi climatici Preboreale e Boreale, vedono ancora un'ampia diffusione del pino silvestre montano e di micromammiferi che prediligono ambienti freddi (es. microtus nivalis). Tra gli animali cacciati prevale decisamente lo stambecco. In seguito si assiste a una sensibile diminuzione di tali specie, a favore di specie termofile: ha inizio così la diffusione dei boschi di latifoglie e del querceto misto, che culminerà nel periodo Atlantico, alla cui fase iniziale sono riferibili le industrie castelnoviane. Anche l'incidenza dello stambecco diminuisce a favore di specie caratteristiche degli ambienti forestali quali il cervo, il capriolo e il cinghiale.
L'economia del Mesolitico si basa sullo sfruttamento di risorse alimentari molto diversificate: le tradizionali attività di caccia ai grandi mammiferi vengono integrate da pesca, raccolta di molluschi di acqua dolce (Unio) e uova, caccia a tartarughe, lontre, castori, uccelli.
Le condizioni climatiche e ambientali sembrano aver influenzato in misura notevole le scelte insediative delle comunità di cacciatori-raccoglitori mesolitici. Durante il Sauveterriano ai siti di fondovalle (es. Romagnano Loc. III, Pradestel, Vatte di Zambana, Riparo Gaban, Riparo Soman) si associa l'occupazione di aree ad alta quota, tra i 1800 e 2300 m. Si tratta per lo più di ripari o di siti all'aperto, ubicati in prossimità di zone di passo o di bacini lacustri sulle Dolomiti, sulle Alpi Aurine e Sarentine, sul M. Baldo e sul M. Pasubio. Tra i più importanti si possono citare i siti dei Laghetti di Colbricon (1908-2100 m), quelli del Passo Oclini, del Pian dei Laghetti, del Lago delle Buse, e il riparo I del Plan de Frea, in Alta Val Gardena (1930 m.). La frequentazione di siti d'alta quota, ai limiti tra i boschi e le praterie, è stata messa in relazione alla caccia allo stambecco e al camoscio, animali costretti a migrare in aree montane montane in seguito ai mutamenti climatici insorti con l'oscillazione di Allerod : si tratterebbe dunque di accampamenti stagionali secondari, complementari a quelli di fondovalle. Lo studio dei manufatti litici consente di formulare ipotesi circa la funzione dei diversi siti: a Colbricon 1, per esempio, è stata messa in luce un'area di officina litica, adiacente a un focolare; si tratterebbe dunque di un bivacco  in cui si confezionavano strumenti per la caccia. Al contrario, il sito 6, a quota più elevata, ha restituito solo alcune categorie di manufatti, con predominio delle armature, che suggeriscono una sua funzione di sito di avvistamento della selvaggina.
Vi sarebbero dunque siti di sussistenza, ubicati in prossimità del lago, e siti di crinale, ad essi complementari, adibiti all'avvistamento e alla caccia.
Durante il Castelnoviano si assiste invece a una generale attenuazione della frequentazione della località d'alta quota, causata verosimilmente dalla graduale scomparsa dello stambecco; ai siti di fondovalle, che continuano ad essere occupati, si assoociano ora siti di collina e di pianura. Siti castelnoviani sono noti anche nell'area occidentale (M. Cornizzoli-CO-, Liguria) e sull'Appennino Tosco-emiliano (Passo della Comunella, Lama Lite-RE-).
Le strutture d'abitato.
I dati relativi alle strutture abitative del Mesolitico sono purtroppo molto lacunosi : a Romagnano Loc III, nel livello AC datato al Sauveterriano, si sono rinvenuti resti di una capanna parzialmente distrutta dai lavori di cava; si tratta di una depressione circolare interpretata come fovea per il focolare, di una buca di palo e di un acciottolato piuttosto regolare. Una buca analoga e diversi pozzetti sono stati messi in luce anche al Riparo Gaban.
Nel riparo I di Plan de Frea I (Sauveterriano medio) è stato portato alla luce un fondo di capanna di forma piriforme, leggermente infossato e addossato alla parete del riparo. Una serie di grosse pietre poste lungo il perimetro aveva forse lo scopo di ancorare la copertura di pelli.
Il sito 1 del Colbricon (Sauveterriano antico, 7420+-130 a.C.) presenta una fovea per focolare, accanto a cui si sono distinti aree con concentrazioni di manufatti di diverse categorie, una delle quali interpretabile come officina litica.

IL MESOLITICO: GLI ULTIMI CACCIATORI-RACCOGLITORI D'EUROPA II

Nuove strategie economiche e nuove tecniche di caccia: l'invenzione dell'arco.

Gli eco-sistemi postglaciali erano più complessi e meno stabili di quelli dell'età tardo glaciale, poichè i cambiamenti stagionali nella vegetazione e nella fauna diventarono più marcati e la quantità e il numero delle specie animali più suscettibili di fluttuazioni  periodiche, non sempre prevedibili. Con l'estensione della foresta temperata si verificò una diminuzione della biomassa dei grandi erbivori gregari, che costituivano l'ineusaribile fonte di cibo delle popolazioni del Paleolitico Superiore. Questo fatto, unitamente alla scomparsa della grande arte delle caverne, ha indotto a ritenere il mesolitico un periodo di decadenza. In realtà, di fronte ai grandi cambiamenti ambientali i Mesolitici hanno saputo adottare nuove strategie economiche, consistenti nello sfruttamento di una gamma più ampia di biotipi e in modo più intenso e completo: caccia grande e piccola caccia, pesca, uccellagione, raccolta intensiva dei molluschi e di tutte le risorse vegetali disponibili. Per realizzare le nuove strategie economiche erano necessarie nuove tecnologie e il Mesolitico fu un periodo di significative conquiste anche nel campo della tecnologia.
L'evoluzione delle industrie litiche è una conseguenza diretta dei cambiamenti nelle tecniche della caccia. La caratteristica principale delle industrie mesolitiche è il microlitismo. Dai nuclei di selce si ottenevano lamelle e microlamelle, che erano ritoccate per fabbricare strumenti di piccole dimensioni, a volte di piccole dimensioni, a volte di pochi millimetri di lunghezza. I microliti erano destinati a essere inseriti in un supporto di legno o di osso e fissati con resina di corteccia di betulla o di altre essenze vegetali (pino, agrifoglio, vischio, cardo), a volte impastata con cera d'api e riscaldata a fuoco lento. La proliferazione delle armature microlitiche, spesso di forma geometrica (semiluna, triangoli, trapezi) corrisponde all'uso ormai generalizzato dell'arco.
Il propulsore, caratteristico del Paleolitico Superiore, permetteva di scagliare giavellotti o arpioni a breve distanza ed il suo uso era possibile in spazi apertissime la tundra, ma non nella foresta temperata. Per cacciare il cervo o il cinghiale nella foresta era indispensabile un'arma più veloce e precisa: l'arco.
La grande quantità di armature microlitiche nei siti mesolitici è la prova indiretta della caccia con l'arco. Gli archi e le frecce più antichi finora ritrovati provengono dall'Europa Settentrionale. A Stellmoor, un sito della cultura di Ahrensburg, è stato trovato un arco in legno di pino, databile al Dryas III. Le frecce in legno di pino con armature microlitiche fissate con resina di pino scoperte a Loshult nella Svezia meridionale risalgono al Preboreale. Le frecce di Vinkel e di Holmegaard, sempre in pino, e gli archi di Holmegaard, in legno di olmo, lunghi 1,5 - 1,9 m., sono di età boreale e appartengono alla cultura di Maglemose.
E' probabile che l'arco sia stato inventato  già alla fine del Paleolitico Superiore e che fosse di uso corrente nelle culture epigravettiane dell'area mediterranea e in quelle epipaleolitiche del vicino Oriente, dove i microliti erano già ampiamente diffusi e le trasformazioni ambientali prodotte dal miglioramento del clima avvennero precocemente rispetto all'Europa continentale e settentrionale.
Per comprendere l'importanza dell'arco bisogna tenere presente che la capacità di penetrazione di un proiettile si deve all'energia cinetica che conserva al momento dell' impatto, la quale è funzione della massa e della velocità. Con il propulsore si possono scagliare lance, giavellotti, arpioni anche fino a 100 m., ma la velocità è bassa e la precisione scarsa, per cui è necessario avvicinarsi molto alla preda per avere successo.
Al contrario, la tensione della corda dell'arco conferisce alla freccia una velocità molto elevata, superiore a 100 km. all'ora. Una freccia del peso di 15-30 gr. Compie una traiettoria di 100 m. in poco più di 3 secondi e conserva un'energia d'impatto superiore ai pallini da caccia di calibro 14. Alla velocità l'arco unisce una grande precisione di tiro: non è più necessario avvicinarsi molto alla preda, poichè un animale avvistato a 60-70 m. di distanza è virtualmente morto. Le armature microlitiche pesano in genere tra 0,5 e 2,0 gr. e rispondono quindi perfettamente ai requisiti richiesti per una freccia.
La maggiore efficacia nella caccia resa possibile dall'arco, unitamente alle nuove strategie economiche di sfruttamento di una più ampia gamma di risorse, ha avuto rilevanti conseguenze sociali e culturali: maggiore sicurezza di cibo ha prodotto un incremento demografico tra le 5 e le 10 volte rispetto al Paleolitico Superiore; grazie all'arco le bande di cacciatori, a differenza di quanto avveniva nel Paleolitico, possono essere più piccole e più autonome e le comunità possono essere formate soltanto da poche famiglie; rispetto all'azione collettiva richiesta dalla caccia ai grandi branchi di erbivori gregari del Paleolitico acquista maggiore importanza l'azione del singolo cacciatore.
Minore dimensione dei gruppi e forte incremento demografico determineranno un'occupazione più capillare del territorio e una maggiore diversificazione culturale.
Gli abitati mesolitici sono piccoli e di breve durata, per lo più soltanto stagionale. Le abitazioni, costruite in materiali leggeri e deperibili, hanno lasciato poche tracce: buche di palo disposte in modo da delimitare uno spazio circolare, ovale o quadrangolare, allineamenti o cerchi di pietre che servivano per bloccare la base di tende rotonde o rettangolari, piattaforme di travi e cortecce di betulla, conservatesi negli ambienti umidi, pavimentazioni di pietre. La frequentazione di ripari sotto roccia è ben documentata soprattutto nell'Europa meridionale e nella regione alpina.

IL MESOLITICO: GLI ULTIMI CACCIATORI-RACCOGLITORI D'EUROPA

Cambiamenti climatici e trasformazione del paesaggio: la rivoluzione verde.

Il termine Mesolitico designa un periodo della preistoria caratterizzato da microliti di forma geometrica, successivo all'ultima glaciazione e anteriore al diffondersi dell'agricoltura, intermedio quindi tra Paleolitico e Neolitico. In realtà i limiti cronologici superiore e inferiore sono un po’ fluidi e variano da regione a regione. Il processo del cambiamento in alcune regioni fu graduale e affonda le sue radici nell'età tardo-glaciale, quando, specialmente nelle zone mediterranee, i cacciatori-raccoglitori paleolitici cominciarono ad adattarsi ad un ambiente che diventava sempre più temperato.
L'arco di tempo interessato dalle culture mesolitiche è caratterizzato da grandi cambiamenti climatici che trasformarono profondamente i territori ed i paesaggi europei, creando nuovi ambienti naturali. Negli ultimi tempi del Tardoglaciale ebbe inizio il processo di deglaciazione. In base allo studio dei foraminiferi dei sedimenti del fondo dell'Atlantico e alle variazioni degli isotopi stabili dell'ossigeno e del carbonio nei ghiacciai della Groenlandia, è stato calcolato che l'aumento della temperatura durante l'interstadiale di Alleröd (10800-9900 a.C.) sia stato di oltre 7 gradi. Il paesaggio della tundra scomparve dalla maggior parte della Francia e dell'Europa centrale e con esso la renna. Il fronte dell'immensa calotta glaciale che scendeva fino ai Paesi Bassi, alla Germania settentrionale e al nord della Russia cominciò ad arretrare, mentre i grandi ghiacciai della catena alpina si ritiravano alle medie ed alte quote. Nel successivo Dryas III, tra 9900 e 9300 a.C., il clima diventò nuovamente molto freddo, ma la renna non tornò più nei territori abbandonati e le fronti glaciali non scesero più a latitudini e a quote così basse come quelle raggiunte prima dell'oscillazione calda di Alleröd.
Con la fine del Dryas III verso il 9300 a.C. termina il Pleistocene, l'età delle glaciazioni, ed ha inizio l'Olocene, il periodo geologico recente in cui ancora viviamo, caratterizzato da un clima sostanzialmente simile a quello attuale, con oscillazioni di temperatura e umidità/aridità piccole in confronto a quelle pleistoceniche.
La successione delle zone polliniche definita per la prima volta nell'Europa settentrionale scandisce i tempi olocenici, vale a dire gli ultimi 1100 anni della storia della terra: Preboreale ( 9300-7825 a.C.), dal clima temperato e secco; Borale (7825-6800a.C.), dal clima caldo e umido, ma con oscillazioni fresche e umide; Sub-Atlantico (da 800 a.C. ad oggi, fresco e umido, con oscillazioni calde).
Nel corso del Preboreale e del Boreale la temperatura aumentò progressivamente, per raggiungere il suo massimo nell'Atlantico, le grandi calotte glaciali dei poli diminuirono di volume e si innalzò il livello degli oceani e dei mari. In 2500 anni il livello del mare salì di circa 60 metri, attestandosi a -40/-20 rispetto alla quota attuale, che sarà raggiunta soltanto tra la fine dell'Atlantico e l'età storica. Verso il 7300 a.C. l'Inghilterra rimase separata dal continente. Nella penisola scandinava all'aumento del livello del mare corrispose il fenomeno isostatico di sollevamento delle terre liberate dal peso delle enormi masse di ghiaccio: in conseguenza di questi fattori contrastanti l'area del golfo di Bothnia passò da lago sbarrato dai ghiacci a mare a Yoldia, quindi a lago ad Ancylus, per ritornare verso il 5500-5000 a.C. ancora a mare (a Litorina).
La piattaforma continentale invasa dalle acque della Manica, del Mare del Nord e del Baltico fu persa per l'insediamento umano, ma contemporaneamente si liberavano spazi ancora più grandi per lo scioglimento della calotta glaciale.
Ai cambiamenti nell'estensione della terra e del mare si accompagnarono le trasformazioni del paesaggio: la grande foresta temperata si diffuse progressivamente da sud verso nord, soppiantando i paesaggi aperti della tundra.
Nell'Europa centro-settentrionale alla foresta rada di betulle e pini del Preboreale, seguì quella di Pini e il massimo della diffusione del Nocciolo nel Boreale, quindi la foresta densa del Querceto misto (quercia, olmo, ontano, carpino).
I grandi branchi di erbivori migratori di grossa taglia che popolavano gli spazi aperti della tundra scomparvero: alcuni come il mammuth, il rinoceronte lanoso o il cervo gigante si estinsero, altri come la renna migrarono verso le latitudini più settentrionali o verso est come il cavallo, e furono sostituiti dal cervo, dal cinghiale, dal Bos primigenius, dal daino e nelle aree montane dall'alce, animali che vivono in gruppi più piccoli e che non hanno un marcato comportamento migratorio. Nel bosco denso che ricoprì l'Europa crebbe il numero e la varietà della piccola fauna di mammiferi.
La sommersione della piattaforma continentale determinò condizioni favorevoli per la ricchezza in quantità e diversità della fauna marina nelle acque poco profonde lungo le zone costiere e lo stesso fenomeno si verificò in molte aree lagunari e lacustri.