venerdì 16 dicembre 2011

I TEMPLI MALTESI DELLA DEA MADRE

L'isola di Malta venne raggiunta dai primi gruppi di colonizzatori intorno al 5000 a.C. Erano agricoltori e allevatori neolitici provenienti dal villaggio di Stentinello presso Siracusa, che fabbricavano contenitori in ceramica decorati da caratteristiche figure geometriche riempite di pasta bianca. Nei secoli seguenti altre genti giunsero dalla Sicilia, riconosciute dagli archeologisempre per l'uso di specifiche classi di ceramica. Intorno al 3600 a.C. ebbe inizio nell'isola di Gozo la costruzione dei templi megalitici di Ggantija (nome locale che significa "torre dei giganti"), cui seguì una fase di transizione (3300-3000 a.C.) cui appartiene a Malta il tempio-sepolcro sotterraneo di Hai Saflieni; quindi, fino al 2500 a.C, la "civiltà dei templi" maltese raggiunse l'apogeo, innalzando i complessi religiosi di Mnajdra, Hagar Qim e Tarxien, ricchi di decorazioni a spirale e di elementi che confermano l'appartenenza al culto mediterraneo della Dea Madre. Poi, improvvisamente, l'arcipelago maltese fu abbandonato da tutti i suoi abitanti per cause sconosciute. Per un migliaio di anni i nuovi arrivati utilizzarono i templi di Tarxien per seppellirvi i loro morti ed eressero semplici dolmen, del tipo di quelli presenti nel Salento (probabile indizio della loro provenienza dalla Puglia), quindi intorno al 1500 a.C. una quarta invasione dell'isola portò altre genti -ancora dalla Sicilia - che si insediarono in villaggi fortificati. Sembrano risalire a quel periodo le misteriose "carreggiate", i profondi binari che solcano la superficie rocciosa delle isole. Infine fu la volta dei Cartaginesi, dei Fenici, dei Romani. La splendida civiltà dei templi megalitici era ormai solo un lontano ricordo inghiottito dai millenni.
Capolavori di architettura preistorica
templi megalitici di Malta sono le prime costruzioni complesse progettate e realizzate dall'uomo neolitico nel bacino del Mediterraneo. Maestosi e articolati in più ambienti, rispondono a schemi creativi e innovativi costanti, mai visti prima di allora. La loro forma tipica si è ripetuta per oltre un millennio, pur con le aggiunte dovute all'evoluzione architettonica e alle esigenze del culto. Un possente muro perimetrale esterno, di solito a forma di "D" rovesciata, racchiude nel suo interno un numero di camere variabile da due a sei, organizzate simmetricamente a coppie opposte o "a trifoglio", affacciate su un corridoio oppure su un cortile centrale (o su entrambi). Le pareti delle stanze presentano forma semicircolare absidata od ovale (la forma tonda domina ogni parte dei templi, totalmente privi di spigoli vivi) e sono delimitate da murature megalitiche distanti anche cinque metri dai muraglioni perimetrali: lo spazio intermedio è sempre riempito da terra e detriti pietrosi. Nei cortili, altari, enormi tazze, vasi e statue costituiscono gli apparati necessari per lo svolgimento dei riti religiosi, conclusi da sacrifici di animali. Le facciate monumentali concave a esedra dei templi prospettano su ampi piazzali esterni; spesso un sedile di pietra corre alla base delle pareti, ai lati dell'ingresso trilitico formato da blocchi giganteschi; la copertura era assicurata da tetti in legno, di cui non vi è più traccia. Gli enormi blocchi calcarei impiegati per i muri perimetrali pongono interrogativi a proposito del loro taglio e del trasporto, perché in quel tempo gli antichi Maltesi disponevano soltanto di strumenti litici.
Le meraviglie dei templi di Malta
Secondo la leggenda, i templi megalitici di Malta furono costruiti da un gruppo di giganti semidei, i soli in gradi di estrarre e trasportare gli enormi blocchi di calcare di cui sono fatti. Ai margini dell'altipiano di Xaghra, nell'isola di Gozo, i due templi del complesso di Ggantija sono circondati da un muraglione oggi alto sei metri, formato da ciclopici monoliti. Il tempio posto a sud è il maggiore e il più antico. Rispetto allo schema a trifoglio dei monumenti innalzati in precedenza (Kordin, Ta' Hagrat), questo tempiopresenta per la prima volta cinque ambienti absidati. Un'imponente entrata formata da due file di ortostati perfettamente squadrati immette in una coppia di camere opposte; un secondo ingresso simile, posto di fronte al precedente, comunica con tre camere maggiori aperte a trifoglio su un cortile, pavimentato come i corridoi. L'ambiente più grande misura 10,50 metri per 9 e sul fondo è occupato da un altare formato da lastre calcaree orizzontali sostenute da pilastrini, diviso in tre parti da due alti monoliti verticali. Le pareti interne delle stanze sono inclinate verso l'interno e dovevano essere intonacate e dipinte; perforazioni nei blocchi monolitici segnalano l'esistenza di porte, altri presentano tracce di rilievi a spirale o sono ricoperti da forellini praticati con un trapano; oltre agli altari, l'apparato di culto comprende nicchie, tabernacoli, vasi in pietra, spioncini rettangolari a feritoia aperti nei blocchi e fori nel pavimento, tutti elementi che indicano una raffinata e pianificata capacità costruttiva. Il tempio minore settentrionale appartiene allo schema a quattro camere quasi semicircolari opposte a coppie, con impiego di blocchi concavi sui bordi superiori degli ingressi e su quelli interni destinati a sostenere l'architrave, migliorandone la stabilità. 
Hal Saflieni
Nell'isola di Malta, nei pressi dell'abitato di Paola, l'ipogeo di Hai Saflieni è la più enigmatica e originale realizzazione della civiltà dei templi, che probabilmente accomunava il mondo dei vivi a quello dei morti, affidati entrambi alla dea della fertilità. Esso è formato da un complicato labirinto, articolato su tre piani sotterranei, di camere per sepolture collettive che accolgono i resti parziali di 6000-7000 individui, con corridoi e ambienti riservati al culto, profondi 10 metri e mezzo. Gli ingressi trilitici, la forma circolare delle stanze, le decorazioni spiraliformi in ocra rossa di pareti e soffitti arrotondati, altari e nicchie, consentono di comprendere meglio la struttura e gli arredi dei templi in superficie. Al secondo piano dell'ipogeo s'incontra la cosiddetta "Stanza dell'Oracolo", un locale rettangolare con una piccola nicchia ricavata ad altezza d'uomo nella parete, dalla quale le parole pronunciate o anche solo sussurrate vengono diffuse da una formidabile acustica. Era forse questo il trucco di cui si serviva il sacerdote per far giungere i suoi messaggi alla sacerdotessa raffigurata nella statuina della Signora Dormiente? La parte centrale dell'ipogeo è costituito dalla "Sala d'Aspetto" che immette nella "Camera Principale", da cui si passa nel "Sancta Sanctorum", riservato al culto: tutti gli ambienti presentano finti ingressi trilitici, architravi tondeggianti e tetti a pseudovolta. Si ritiene che Hai Saflieni sia stato un luogo di culto non aperto ai fedeli, ma destinato a particolari cerimonie e alle sepolture secondarie della popolazione.
Mnajdra e Hagar Qim
Sulla costa occidentale di Malta, di fronte all'isolotto di Filfola, i tre templi di Mnajdra, appartenenti a periodi differenti, si affacciano su un cortile semicircolare da due diversi livelli. In alto vi è il più antico, un tempio a trifoglio della fase Ggantija, in basso quello meglio conservato, con una bella facciata, concava e fitte perforazioni al trapano su due blocchi calcarei interni e alcuni spioncini a feritoia che comunicano con probabili "stanze dell'oracolo". Il tempio centrale, costruito per ultimo, ha un triplo ingresso monumentale e presenta su un blocco la curiosa scultura del tempio completo del tetto. Nel tempio meridionale, risalente alla più antica fase di Tarxien, la prima coppia di camere presenta grandi nicchie alle pareti e una struttura trilitica densamente decorata da perforazioni al trapano; la successione di alcuni corsi orizzontali di blocchi calcarei aggettanti verso l'interno conferma che gli ambienti erano coperti da tetti a pseudovolta. Forse la firma dell'architetto che lo innalzò? A poca distanza, in posizione dominante, si trova il maggiore complesso megalitico dell'isola, costituito dal tempio di Hagar Qim, più volte ampliato. La monumentale facciata comprende un monolite alto cinque metri che emerge dalla muratura e il maggiore lastrone calcareo conosciuto, alto sette metri e pesante 20 tonnellate; alcune stanze che prospettano sul cortile interno sono ornate da altari a forma di fungo sostenuti da pilastrini ricoperti di perforazioni, da blocchi calcarei traforati e nicchie, che hanno restituito statuine femminili fra cui la famosa "Venere". La camera più meridionale contiene al posto dell'altare un monolite cilindrico fallico, simile a un secondo collocato all'esterno, probabile indizio che questo tempio era dedicato al culto della fertilità.
Tarxien
Il complesso dei quattro vastissimi templi di Tarxien, innalzati fra il 3300 e il 2500 a.C, rappresenta l'apogeo della civiltà maltese e segna anche la sua repentina conclusione. Il tempio meridionale presenta una facciata a esedra lunga 34 metri e quattro stanze absidate che hanno restituito blocchi calcarei decorati da sculture a spirali oculiformi e di animali, gli stessi che venivano sacrificati usando il pugnale sacro di selce ritrovato nella nicchia presso un altare. Affacciata su un cortiletto, vi era la grande statua attribuita alla Dea Madre, di cui rimane solo la parte inferiore. Fra gli altri templi di Tarxien, quello centrale a sei camere fu l'ultimo a essere costruito; il vasto cortile pavimentato accoglie un grande focolare rotondo in pietra, mentre una camera è occupata da un'enorme tazza, pure in pietra, forse destinata a contenere gli animali sacrificati; altri ambienti sono accessibili scavalcando i blocchi posati sul pavimento e inseriti in ortostati verticali ornati da rilievi a doppia spirale, forse segno che in quei locali potevano entrare solo i sacerdoti.
Una fine misteriosa
Intorno al 2500 a.C. la popolazione dell'arcipelago maltese doveva superare i 10 000 abitanti. All'improvviso le isole si spopolarono, i villaggi furono abbandonati e occupati poco dopo da nuove popolazioni, che utilizzarono i templi di Tarxien per un migliaio d'anni come cimitero. Anche se non è del tutto escluso che questa invasione possa essere stata una delle cause dell'abbandono, poiché non si è trovata traccia di violenze né di distruzioni, prevale la tesi che i nuovi arrivati abbiano trovato le isole deserte. Le ipotesi avanzate sulle cause di tale evento misterioso sono molteplici: un prolungato periodo di siccità, l'aumento della popolazione e la mancanza di terre da coltivare, una micidiale epidemia, una rivolta contro la classe sacerdotale divenuta troppo potente, la volontà espressa dalla divinità venerata nei templi... Forse non sapremo mai cosa accadde realmente: in ogni caso si trattò di un avvenimento straordinario, che cancellò una civiltà evolutissima, rimasta confinata per oltre mille anni nelle piccole isole maltesi, dove manifestò una sorprendente capacità costruttiva autonoma e una fortissima motivazione religiosa rivolta al culto della Dea Madre. Ma perché templi simili esistono soltanto a Malta e a Gozo? È verosimile l'ipotesi che fossero santuari frequentati dai navigatori mediterranei? A giudicare dalla loro esclusività, sembrerebbe fossero riservati al culto locale; di sicuro i costruttori degli ineguagliati templi megalitici non venivano dall'esterno, perché altrimenti esisterebbero anche altrove monumenti simili. Mentre venivano innalzati i templi di Malta, a Stonehenge si compivano le prime due fasi di costruzione del tempio e a Carnac sorgevano imponenti monumenti megalitici. Tale contemporaneità ha alimentato discussioni sul ruolo maltese nella diffusione del megalitismo. Poiché è accertato che questo fenomeno nacque e si sviluppò in Bretagna, Malta può essere stato il centro di rielaborazione e di rilancio di questa ideologia al centro del Mediterraneo, accolto e manifestato in forme diverse. Ma chi portò a Malta il messaggio megalitico dalle coste atlantiche?
LE ENIGMATICHE "CARREGGIATE"
Le isole maltesi offrono un'altro enigma: le "carreggiate", o "binari", o cart-ruts (sotto). Sono dei percorsi con sezione a "V", formati da due solchi paralleli posti alla distanza di 1,30 metri e profondi in media 6-10 centimetri, che attraversano in più punti la superficie rocciosa di Malta e Gozo, sia in zone pianeggianti, sia su erte colline. Straordinarie le zone di "scambio" tra diversi binari, proprio come avviene nelle stazioni; eccezionali i solchi che da alcune spiagge si inabissano in mare. Il fatto che alcuni binari siano stati tagliati da tombe puniche lostra la loro anteriorità, ma non si sa di quanto; la presenza di solchi che da antiche cave di tufo conducono alle porte di villaggi dell'Età del Bronzo indicherebbe l'uso dei binari: vi scorrevano le ruote di carri o i pattini di slitte per il trasporto dei blocchi impiegati nella costruzione delle case.
LE STATUE FEMMINILI DI MALTA
La colossale statua femminile restituita dal complesso di templi di Tarxien è incompleta, ma lascia intuire che doveva essere alta circa tre metri. Nel cortile del tempio meridionale, un basamento decorato con motivi spiraliformi e geometrici sostiene la parte inferiore della statua, formata da due grasse gambe e una lunga sottana a pieghe; i piedi sono invece ben proporzionati. Il suo aspetto completo si può intuire da alcune statuine femminili acefale del tempio di Hagar Qim, una seduta e l'altra in posizione eretta: entrambe raffigurano divinità obese, con volutaaccentuazione delle proporzioni delle cosce e dei glutei. L'intenzionalità di tali sculture è provata dalla presenza di un'altra statuina, chiamata Venere di Malta: nella sua nudità offre un corpo generoso con grandi seni, ma realistico e ben proporzionato. Enigmatica è invece la statuina della Signora Dormiente dell'ipogeo di Hai Saflieni, una grassa figura femminile a busto scoperto, vestita con una gonna a pieghe, ritratta mentre dorme su un lettino con la testa appoggiata sul braccio piegato. Ma i templi megalitici maltesi erano ornati anche da simboli fallici e rilievi di animali (capre, montoni, buoi, tori, maiali) che provano l'adesione a un culto completo della fecondità. La presenza ricorrente del simbolo della spirale (specialmente a Tarxien), semplice, doppia o con quattro ricche volute contrapposte, viene considerata dagli studiosi la sintesi grafica del culto della vita.

IL MESOLITICO DELL'ITALIA SETTENTRIONALE II

Arte e spiritualità.

Piuttosto diffuso durante il Mesolitico è l'utilizzo di sostanze coloranti e di oggetti ornamentali. Si tratta per lo più di conchiglie marine o d'acqua dolce, di vertebre di pesci, canini di cervo, frammenti di ossa o ciottoli, tutti forati per la sospensione come ciondoli di collane o bracciali o per essere cuciti ai capi di vestiario. Essi sono ben documentati a Romagnano III, Pradestel, Vatte, Gaban, Bus de la Vecia, riparo Frea IV e nella grottina dei Covoloni del Broion. Manufatti artistici sono stati rinvenuti al Riparo Gaban, sito in cui oggetti analoghi sono documentati anche nei livelli neolitici. Essi erano stati deposti all'interno di buche rimaneggiate già in età mesolitica (vi si trovano infatti mescolati manufatti sauveterriani e castelnoviani). Una figura femminile è stata ricavata a bassorilievo dalla sezione apicale di un ramo di corno cervino forata longitudinalmente. Una gola al di sotto dell'apice consentiva forse la sospensione, mentre la perforazione longitudinale poteva fungere da immanicatura per uno strumento. Le superfici sono fortemente usurate e combuste. Un oggetto analogo presenta incisioni parallele, motivi a zig-zag e triangoli e residui di ocra rossa. Vi sono poi cilindretti ricavati da sezioni di diafisi di ossa lunghe, decorati a tacche, punti, zig-zag, reticoli. Alcuni punteruoli e un metacarpo di orso decorati a tacche e con tracce d'ocra sono stati recuperati anche a Romagnano Loc III.
Si conoscono inoltre alcune sepolture: la prima è stata messa in luce nel Riparo di Vatte di Zambana; si tratta di un individuo di sesso femminile, alto ca. 1,52 m. e dell'età di cinquant'anni circa. La testa era appoggiata ad un gradino formato dalla roccia e il volto era rivolto a sinistra. Il tronco era adagiato in una fossa poco profonda, con orientamento NW-SE. Le braccia erano stese parallelamente ai fianchi, gli avambracci flessi e le mani si riunivano all'altezza del pube. Un tumulo di pietre ricopriva cranio e tronco. Non è stato ritrovato alcun oggetto di corredo, ma si è notata la presenza di qualche frammento d'ocra al di sotto del cranio. Le datazioni radiometriche ottenute per questa sepoltura oscillano tra 6050±110 e 5790±150 a.C.
Lo scheletro documenta la frattura dell'avambraccio destro guarita senza esiti e una seconda frattura al gomito sinistro guarita in pseudo-artrosi serrata, con conseguenti gravi deformazioni.
Una seconda sepoltura è stata recentemente recuperata nel sito di Mondeval de Sora, in comune di S. Vito di Cadore, a 2150 m. di altitudine. Sotto l'aggetto di un grande masso erratico si sono trovati livelli d'occupazione del Mesolitico antico e recente, dell'età del Rame e di epoca medievale. Nel 1986 fu messa in luce una sepoltura in fossa di età castelnoviana (5380±50 a.C.). L'inumato era un uomo adulto, di circa quarant'anni, alto 1,67 m. e di costituzione robusta. La parte inferiore del corpo era ricoperta di pietre selezionate (pietre vulcaniche e marna calcarea). La mano sinistra, posta verticalmente sul fianco esterno, presentava dita ripiegate come se impugnassero qualcosa. Sul lato destro vi erano tracce di ocra rossa, su quello sinistro un gruppo di 33 reperti, tra cui alcuni strumenti di selce, ciottoli di calcare, un arpione e altri manufatti in osso e corno. Poco più in basso, all'altezza della mano sinistra si sono recuperati altri due gruppi di oggetti litici o in zanna di cinghiale, alcuni dei quali coperti di mastice, e due agglomerati di sostanza organica: il primo costituito per lo più di resine, il secondo di cera d'api e propoli. Si può pensare che questi gruppi di oggetti fossero stati deposti all'interno di contenitori e che costituissero la dotazione d'uso quotidiano.
Facevano inoltre parte del corredo 3 lame in selce gialla, collocate ciascuna su una spalla e la terza sotto il cranio e 7 canini atrofici di cervo; un punteruolo posto sullo sterno e uno tra le ginocchia servivano forse a chiudere una sorta di sudario in pelle.
Lo studio dello scheletro ha evidenziato la frattura di un dito della mano destra perfettamente guarita e una osteopatia deformante all'emitorace sinistro. L'uomo mesolitico di Mondeval de Sora appartiene alla razza di Cro-Magnon, già presente in Europa durante il Paleolitico Superiore.

IL MESOLITICO DELL'ITALIA SETTENTRIONALE

Ambiente ed economia.

Lo studio dei pollini, dei carboni, dei resti micro-e macro-faunistici raccolti in ciascun livello nei siti pluristratificati di Romagnano, Pradestel e Vatte di Zambana (TN) ha permesso di delineare l'evoluzione del clima e dell'ambiente dall'inizio dell'età olocenica.
L'area della Val d'Adige sembra essere stata interessata da un ritiro dei ghiacciai già durante il tardoglaciale; a quell'epoca un grande bacino lacustre era racchiuso tra le morene della conca di Trento. L'aumento progressivo della temperatura, non accompagnato da un analogo incremento nella piovosità, causò l'insorgere di un clima caldo e arido, con la conseguente scomparsa della flora e della fauna pleistoceniche e determinò la diffusione di associazioni faunistiche e floristiche mediterranee anche in aree montane. Le fasi più antiche del Mesolitico, ricadenti nei periodi climatici Preboreale e Boreale, vedono ancora un'ampia diffusione del pino silvestre montano e di micromammiferi che prediligono ambienti freddi (es. microtus nivalis). Tra gli animali cacciati prevale decisamente lo stambecco. In seguito si assiste a una sensibile diminuzione di tali specie, a favore di specie termofile: ha inizio così la diffusione dei boschi di latifoglie e del querceto misto, che culminerà nel periodo Atlantico, alla cui fase iniziale sono riferibili le industrie castelnoviane. Anche l'incidenza dello stambecco diminuisce a favore di specie caratteristiche degli ambienti forestali quali il cervo, il capriolo e il cinghiale.
L'economia del Mesolitico si basa sullo sfruttamento di risorse alimentari molto diversificate: le tradizionali attività di caccia ai grandi mammiferi vengono integrate da pesca, raccolta di molluschi di acqua dolce (Unio) e uova, caccia a tartarughe, lontre, castori, uccelli.
Le condizioni climatiche e ambientali sembrano aver influenzato in misura notevole le scelte insediative delle comunità di cacciatori-raccoglitori mesolitici. Durante il Sauveterriano ai siti di fondovalle (es. Romagnano Loc. III, Pradestel, Vatte di Zambana, Riparo Gaban, Riparo Soman) si associa l'occupazione di aree ad alta quota, tra i 1800 e 2300 m. Si tratta per lo più di ripari o di siti all'aperto, ubicati in prossimità di zone di passo o di bacini lacustri sulle Dolomiti, sulle Alpi Aurine e Sarentine, sul M. Baldo e sul M. Pasubio. Tra i più importanti si possono citare i siti dei Laghetti di Colbricon (1908-2100 m), quelli del Passo Oclini, del Pian dei Laghetti, del Lago delle Buse, e il riparo I del Plan de Frea, in Alta Val Gardena (1930 m.). La frequentazione di siti d'alta quota, ai limiti tra i boschi e le praterie, è stata messa in relazione alla caccia allo stambecco e al camoscio, animali costretti a migrare in aree montane montane in seguito ai mutamenti climatici insorti con l'oscillazione di Allerod : si tratterebbe dunque di accampamenti stagionali secondari, complementari a quelli di fondovalle. Lo studio dei manufatti litici consente di formulare ipotesi circa la funzione dei diversi siti: a Colbricon 1, per esempio, è stata messa in luce un'area di officina litica, adiacente a un focolare; si tratterebbe dunque di un bivacco  in cui si confezionavano strumenti per la caccia. Al contrario, il sito 6, a quota più elevata, ha restituito solo alcune categorie di manufatti, con predominio delle armature, che suggeriscono una sua funzione di sito di avvistamento della selvaggina.
Vi sarebbero dunque siti di sussistenza, ubicati in prossimità del lago, e siti di crinale, ad essi complementari, adibiti all'avvistamento e alla caccia.
Durante il Castelnoviano si assiste invece a una generale attenuazione della frequentazione della località d'alta quota, causata verosimilmente dalla graduale scomparsa dello stambecco; ai siti di fondovalle, che continuano ad essere occupati, si assoociano ora siti di collina e di pianura. Siti castelnoviani sono noti anche nell'area occidentale (M. Cornizzoli-CO-, Liguria) e sull'Appennino Tosco-emiliano (Passo della Comunella, Lama Lite-RE-).
Le strutture d'abitato.
I dati relativi alle strutture abitative del Mesolitico sono purtroppo molto lacunosi : a Romagnano Loc III, nel livello AC datato al Sauveterriano, si sono rinvenuti resti di una capanna parzialmente distrutta dai lavori di cava; si tratta di una depressione circolare interpretata come fovea per il focolare, di una buca di palo e di un acciottolato piuttosto regolare. Una buca analoga e diversi pozzetti sono stati messi in luce anche al Riparo Gaban.
Nel riparo I di Plan de Frea I (Sauveterriano medio) è stato portato alla luce un fondo di capanna di forma piriforme, leggermente infossato e addossato alla parete del riparo. Una serie di grosse pietre poste lungo il perimetro aveva forse lo scopo di ancorare la copertura di pelli.
Il sito 1 del Colbricon (Sauveterriano antico, 7420+-130 a.C.) presenta una fovea per focolare, accanto a cui si sono distinti aree con concentrazioni di manufatti di diverse categorie, una delle quali interpretabile come officina litica.

IL MESOLITICO: GLI ULTIMI CACCIATORI-RACCOGLITORI D'EUROPA II

Nuove strategie economiche e nuove tecniche di caccia: l'invenzione dell'arco.

Gli eco-sistemi postglaciali erano più complessi e meno stabili di quelli dell'età tardo glaciale, poichè i cambiamenti stagionali nella vegetazione e nella fauna diventarono più marcati e la quantità e il numero delle specie animali più suscettibili di fluttuazioni  periodiche, non sempre prevedibili. Con l'estensione della foresta temperata si verificò una diminuzione della biomassa dei grandi erbivori gregari, che costituivano l'ineusaribile fonte di cibo delle popolazioni del Paleolitico Superiore. Questo fatto, unitamente alla scomparsa della grande arte delle caverne, ha indotto a ritenere il mesolitico un periodo di decadenza. In realtà, di fronte ai grandi cambiamenti ambientali i Mesolitici hanno saputo adottare nuove strategie economiche, consistenti nello sfruttamento di una gamma più ampia di biotipi e in modo più intenso e completo: caccia grande e piccola caccia, pesca, uccellagione, raccolta intensiva dei molluschi e di tutte le risorse vegetali disponibili. Per realizzare le nuove strategie economiche erano necessarie nuove tecnologie e il Mesolitico fu un periodo di significative conquiste anche nel campo della tecnologia.
L'evoluzione delle industrie litiche è una conseguenza diretta dei cambiamenti nelle tecniche della caccia. La caratteristica principale delle industrie mesolitiche è il microlitismo. Dai nuclei di selce si ottenevano lamelle e microlamelle, che erano ritoccate per fabbricare strumenti di piccole dimensioni, a volte di piccole dimensioni, a volte di pochi millimetri di lunghezza. I microliti erano destinati a essere inseriti in un supporto di legno o di osso e fissati con resina di corteccia di betulla o di altre essenze vegetali (pino, agrifoglio, vischio, cardo), a volte impastata con cera d'api e riscaldata a fuoco lento. La proliferazione delle armature microlitiche, spesso di forma geometrica (semiluna, triangoli, trapezi) corrisponde all'uso ormai generalizzato dell'arco.
Il propulsore, caratteristico del Paleolitico Superiore, permetteva di scagliare giavellotti o arpioni a breve distanza ed il suo uso era possibile in spazi apertissime la tundra, ma non nella foresta temperata. Per cacciare il cervo o il cinghiale nella foresta era indispensabile un'arma più veloce e precisa: l'arco.
La grande quantità di armature microlitiche nei siti mesolitici è la prova indiretta della caccia con l'arco. Gli archi e le frecce più antichi finora ritrovati provengono dall'Europa Settentrionale. A Stellmoor, un sito della cultura di Ahrensburg, è stato trovato un arco in legno di pino, databile al Dryas III. Le frecce in legno di pino con armature microlitiche fissate con resina di pino scoperte a Loshult nella Svezia meridionale risalgono al Preboreale. Le frecce di Vinkel e di Holmegaard, sempre in pino, e gli archi di Holmegaard, in legno di olmo, lunghi 1,5 - 1,9 m., sono di età boreale e appartengono alla cultura di Maglemose.
E' probabile che l'arco sia stato inventato  già alla fine del Paleolitico Superiore e che fosse di uso corrente nelle culture epigravettiane dell'area mediterranea e in quelle epipaleolitiche del vicino Oriente, dove i microliti erano già ampiamente diffusi e le trasformazioni ambientali prodotte dal miglioramento del clima avvennero precocemente rispetto all'Europa continentale e settentrionale.
Per comprendere l'importanza dell'arco bisogna tenere presente che la capacità di penetrazione di un proiettile si deve all'energia cinetica che conserva al momento dell' impatto, la quale è funzione della massa e della velocità. Con il propulsore si possono scagliare lance, giavellotti, arpioni anche fino a 100 m., ma la velocità è bassa e la precisione scarsa, per cui è necessario avvicinarsi molto alla preda per avere successo.
Al contrario, la tensione della corda dell'arco conferisce alla freccia una velocità molto elevata, superiore a 100 km. all'ora. Una freccia del peso di 15-30 gr. Compie una traiettoria di 100 m. in poco più di 3 secondi e conserva un'energia d'impatto superiore ai pallini da caccia di calibro 14. Alla velocità l'arco unisce una grande precisione di tiro: non è più necessario avvicinarsi molto alla preda, poichè un animale avvistato a 60-70 m. di distanza è virtualmente morto. Le armature microlitiche pesano in genere tra 0,5 e 2,0 gr. e rispondono quindi perfettamente ai requisiti richiesti per una freccia.
La maggiore efficacia nella caccia resa possibile dall'arco, unitamente alle nuove strategie economiche di sfruttamento di una più ampia gamma di risorse, ha avuto rilevanti conseguenze sociali e culturali: maggiore sicurezza di cibo ha prodotto un incremento demografico tra le 5 e le 10 volte rispetto al Paleolitico Superiore; grazie all'arco le bande di cacciatori, a differenza di quanto avveniva nel Paleolitico, possono essere più piccole e più autonome e le comunità possono essere formate soltanto da poche famiglie; rispetto all'azione collettiva richiesta dalla caccia ai grandi branchi di erbivori gregari del Paleolitico acquista maggiore importanza l'azione del singolo cacciatore.
Minore dimensione dei gruppi e forte incremento demografico determineranno un'occupazione più capillare del territorio e una maggiore diversificazione culturale.
Gli abitati mesolitici sono piccoli e di breve durata, per lo più soltanto stagionale. Le abitazioni, costruite in materiali leggeri e deperibili, hanno lasciato poche tracce: buche di palo disposte in modo da delimitare uno spazio circolare, ovale o quadrangolare, allineamenti o cerchi di pietre che servivano per bloccare la base di tende rotonde o rettangolari, piattaforme di travi e cortecce di betulla, conservatesi negli ambienti umidi, pavimentazioni di pietre. La frequentazione di ripari sotto roccia è ben documentata soprattutto nell'Europa meridionale e nella regione alpina.

IL MESOLITICO: GLI ULTIMI CACCIATORI-RACCOGLITORI D'EUROPA

Cambiamenti climatici e trasformazione del paesaggio: la rivoluzione verde.

Il termine Mesolitico designa un periodo della preistoria caratterizzato da microliti di forma geometrica, successivo all'ultima glaciazione e anteriore al diffondersi dell'agricoltura, intermedio quindi tra Paleolitico e Neolitico. In realtà i limiti cronologici superiore e inferiore sono un po’ fluidi e variano da regione a regione. Il processo del cambiamento in alcune regioni fu graduale e affonda le sue radici nell'età tardo-glaciale, quando, specialmente nelle zone mediterranee, i cacciatori-raccoglitori paleolitici cominciarono ad adattarsi ad un ambiente che diventava sempre più temperato.
L'arco di tempo interessato dalle culture mesolitiche è caratterizzato da grandi cambiamenti climatici che trasformarono profondamente i territori ed i paesaggi europei, creando nuovi ambienti naturali. Negli ultimi tempi del Tardoglaciale ebbe inizio il processo di deglaciazione. In base allo studio dei foraminiferi dei sedimenti del fondo dell'Atlantico e alle variazioni degli isotopi stabili dell'ossigeno e del carbonio nei ghiacciai della Groenlandia, è stato calcolato che l'aumento della temperatura durante l'interstadiale di Alleröd (10800-9900 a.C.) sia stato di oltre 7 gradi. Il paesaggio della tundra scomparve dalla maggior parte della Francia e dell'Europa centrale e con esso la renna. Il fronte dell'immensa calotta glaciale che scendeva fino ai Paesi Bassi, alla Germania settentrionale e al nord della Russia cominciò ad arretrare, mentre i grandi ghiacciai della catena alpina si ritiravano alle medie ed alte quote. Nel successivo Dryas III, tra 9900 e 9300 a.C., il clima diventò nuovamente molto freddo, ma la renna non tornò più nei territori abbandonati e le fronti glaciali non scesero più a latitudini e a quote così basse come quelle raggiunte prima dell'oscillazione calda di Alleröd.
Con la fine del Dryas III verso il 9300 a.C. termina il Pleistocene, l'età delle glaciazioni, ed ha inizio l'Olocene, il periodo geologico recente in cui ancora viviamo, caratterizzato da un clima sostanzialmente simile a quello attuale, con oscillazioni di temperatura e umidità/aridità piccole in confronto a quelle pleistoceniche.
La successione delle zone polliniche definita per la prima volta nell'Europa settentrionale scandisce i tempi olocenici, vale a dire gli ultimi 1100 anni della storia della terra: Preboreale ( 9300-7825 a.C.), dal clima temperato e secco; Borale (7825-6800a.C.), dal clima caldo e umido, ma con oscillazioni fresche e umide; Sub-Atlantico (da 800 a.C. ad oggi, fresco e umido, con oscillazioni calde).
Nel corso del Preboreale e del Boreale la temperatura aumentò progressivamente, per raggiungere il suo massimo nell'Atlantico, le grandi calotte glaciali dei poli diminuirono di volume e si innalzò il livello degli oceani e dei mari. In 2500 anni il livello del mare salì di circa 60 metri, attestandosi a -40/-20 rispetto alla quota attuale, che sarà raggiunta soltanto tra la fine dell'Atlantico e l'età storica. Verso il 7300 a.C. l'Inghilterra rimase separata dal continente. Nella penisola scandinava all'aumento del livello del mare corrispose il fenomeno isostatico di sollevamento delle terre liberate dal peso delle enormi masse di ghiaccio: in conseguenza di questi fattori contrastanti l'area del golfo di Bothnia passò da lago sbarrato dai ghiacci a mare a Yoldia, quindi a lago ad Ancylus, per ritornare verso il 5500-5000 a.C. ancora a mare (a Litorina).
La piattaforma continentale invasa dalle acque della Manica, del Mare del Nord e del Baltico fu persa per l'insediamento umano, ma contemporaneamente si liberavano spazi ancora più grandi per lo scioglimento della calotta glaciale.
Ai cambiamenti nell'estensione della terra e del mare si accompagnarono le trasformazioni del paesaggio: la grande foresta temperata si diffuse progressivamente da sud verso nord, soppiantando i paesaggi aperti della tundra.
Nell'Europa centro-settentrionale alla foresta rada di betulle e pini del Preboreale, seguì quella di Pini e il massimo della diffusione del Nocciolo nel Boreale, quindi la foresta densa del Querceto misto (quercia, olmo, ontano, carpino).
I grandi branchi di erbivori migratori di grossa taglia che popolavano gli spazi aperti della tundra scomparvero: alcuni come il mammuth, il rinoceronte lanoso o il cervo gigante si estinsero, altri come la renna migrarono verso le latitudini più settentrionali o verso est come il cavallo, e furono sostituiti dal cervo, dal cinghiale, dal Bos primigenius, dal daino e nelle aree montane dall'alce, animali che vivono in gruppi più piccoli e che non hanno un marcato comportamento migratorio. Nel bosco denso che ricoprì l'Europa crebbe il numero e la varietà della piccola fauna di mammiferi.
La sommersione della piattaforma continentale determinò condizioni favorevoli per la ricchezza in quantità e diversità della fauna marina nelle acque poco profonde lungo le zone costiere e lo stesso fenomeno si verificò in molte aree lagunari e lacustri.

IL MESOLITICO DELL'ITALIA SETTENTRIONALE

Le industrie litiche.

La scoperta di siti mesolitici in Italia settentrionale è piuttosto recente: in particolare i lavori di sbancamento delle grandi conoidi detritiche della Val d'Adige hanno portato alla luce imponenti sequenze stratigrafiche alla fine degli anni Sessanta.
La più importante è sicuramente quella di Romagnano  Loc III (TN) che, in più di 8 metri di spessore, conserva tracce di occupazione, che vanno dal Mesolitico all'età del Ferro. Lo scavo, eseguito durante gli anni Sessanta, ha consentito di studiare l'evoluzione delle industrie dal Sauveterriano antico sino al Neolitico; si è così ricostruita una sequenza relativa di riferimento, a cui è stato possibile associare datazioni assolute ottenute attraverso il metodo del 14C. Altre scoperte si sono susseguite nella Val d'Adige, nei fondovalle alpini e in siti d'alta quota dell'Italia nord-orientale, grazie soprattutto a sistematiche ricerche di superficie; meno conosciuta risulta invece l'area occidentale, interessata solo di recente da ricerche mirate all'individuazione di siti mesolitici.
Le industrie.
Laddove livelli di occupazione mesolitici si trovano stratificati al di sopra di depositi del Paleolitico finale (es. riparo di Biarzo -UD-, Grotta  della Madonna di praia a Mare  -CS-, Grotta della Serratura -SA-) è possibile cogliere una derivazione dei complessi mesolitici da quelli epigravettiani più evoluti. Si nota un forte sviluppo del microlitismo, con strumenti geometrici  standardizzati di dimensioni ancora più piccole rispetto a quelli dell'Epigravettiano, punte a due dorsi convergenti, dorsi e troncature, ottenuti con la tecnica del microbulino e utilizzati come armature modulari per frecce ed arpioni. Anche in Italia è possibile distinguere complessi di tipo Sauvetarriano e Castelnoviano. Le principali sequenze stratigrafiche per lo studio dell'evoluzione delle industrie durante il Mesolitico sono quelle della Val d'Adige: Romagnano Predestel, Vatte di Zambana e Riparo Gaban (TN). Altre sequenze stratigrafiche rilevanti sono fornite dal Riparo Soman (VR), con livelli di occupazione che vanno dall'Epigravettiano finale al Neolitico, dalla grottina dei Covoloni del Broion, sui Berici (VI), e da alcune grotte del Carso triestino ( Grotta Azzurra, Grotta dell'Edera, Grotta della Tartaruga).
Industrie sauvetariane sono state individuate oltre che nel bacino dell'Adige, nelle Dolomiti bellunesi e nel Carso, anche nell'area nord-occidentale (Alpe Veglia -NO- e Liguria) e in alcuni siti delle Alpi Apuane e dell'Appennino Tosco-emiliano (isola Santa, Bagioletto -RE-). Sulla base della tipologia, tipometria e frequenza delle armature microlitiche è stato possibile suddividere il Sauvetariano in quattro fasi:
- S. ANTICO: (Romagnano III livv. AF-AE; Pradestel liv. M) 7950-7400 a.C. associazione di triangoli, per lo più isosceli, spesso a tre lati ritoccati, segmenti e punti a due dorsi lunghe;
- S. MEDIO: ( Romagnano III livv. AC3-AC9; Pradestel livv. H1-H2) 6550-6200 a.C. associazione di triangoli scaleni lunghi a base corta, ritoccati su tre lati, e punti a due dorsi corte;
- S. FINALE: ( Pradestel, liv. F; Vatte di Zambana) 6200-5800 a.C.
All'inizio del Castelnoviano (5800-4500 a.C.) i triangoli vanno scomparendo e si gha una trasformazione tecnologica caratterizzata da un affinamento nella tecnica di scheggiatura che consente di ottenere da nuclei piramidali lame molto regolari, utilizzate per la fabbricazione di armature trapezoidali con la tecnica del microbulino. Ai trapezi, spesso muniti di piquant trièdre, si associano lame e lamelle a incavi o a margini denticolati (lame Montbani), utilizzate, secondo alcuni autori, per decorticare i rami.
La fase finale del Castelnoviano (identificata nel liv. AA di Romagnano III e nel liv. A di Pradestel) vede la comparsa di frammenti ceramici ed è per tanto correlabile al Neolitico iniziale.
In generale si osserva l'uso di selce di buona qualità associata al cristallo di rocca delle Alpi Aurine. Parallelamente all'industria litica si sviluppa quella su osso e corno per la fabbricazione di arpioni, punteruoli, spatole e ascie.

IL MESOLITICO ED IL NEOLITICO III

A cosa servivano gli strumenti di pietra scheggiata.

La classificazione degli strumenti è una miscela di denominazioni convenzionali, in parte funzionali in parte puramente morfologiche. In realtà non sappiamo con precisione l'uso effettivo a cui erano destinati gli strumenti di pietra scheggiata. Si è sempre supposto che venissero utilizzati per tagliare la carne, confezionare le pelli e lavorare il legno. Gli studi sul significato funzionale delle microtracce d'usura hanno confermato questi diversi usi, ma non sempre in conformità alle denominazioni adottate dagli archeologi per gli strumenti. Le azioni più frequentemente evidenziate sono quelle di decorticazione, piallatura, lisciatura e sagomatura del legno e di taglio, scarnificazione e raschiamento delle pelli.
Le classificazioni comunemente impiegate per gli strumenti del Paleolitico Medio e Superiore, per il Mesolitico e poi anche il Neolitico e in parte l'età del Rame e del Bronzo, comprendono alcune famiglie e gruppi tipologici denominati: bulini, grattatoi, lame a dorso, punte a dorso, troncature, dorsi e troncature, becchi o perforatori, armature geometriche, punte foliate, raschiatoi foliati, punte, raschiatoi, denticolati, pezzi scagliati.
Per alcuni gruppi si possono proporre, in base a criteri puramente formali, al ritrovamento di strumenti immanicati, alle tracce d'uso e ai confronti etnografici alcuna funzioni.
Le lame e le punte a dorso dovevano essere strumenti da taglio, paragonabili ai nostri coltelli.
La parte attiva era il bordo naturalmente tagliente, mentre il dorso ottenuto con il ritocco erto aveva lo scopo di facilitare uno stabile inserimento in un supporto funzionante da manico o di permettere l'appoggio del dito durante l'uso dello strumento.
I bulini, caratterizzati da un robusto e stretto taglio trasversale come quello di uno scalpello, avevano la funzione di incidere legno, osso e corno per fare scanalature in modo da ottenere dei manici o supporti per immanicare altri strumenti di selce. I bulini servivano certamente anche per eseguire incisioni a scopo decorativo.
I becchi o perforatori dovevano essere utilizzati per fare dei fori in materiali come il legno, l'osso e la pelle. Le lame denticolate o con incavi servivano probabilmente per decorticare e squadrare il legno, ad esempio per preparare la aste di giavellotti o frecce. Si possono quindi assimilare allo strumento, in uso soprattutto nelle aree montane, detto scortecciatoio o coltello a due manici (in inglese draw-knife o spoke- shave).
I grattatoi sono caratterizzati da una fronte in cui il ritocco forma con la faccia ventrale della scheggia o della lama un angolo di circa 60° e servivano per operazioni di raschiatura, lisciatura e piallatura nella concia delle pelli e nella lavorazione del legno e dell'osso.
I grattatoi frontali lunghi possono essere stati utilizzati per raschiare pelli, rimuovere la corteccia dagli alberi, incavare legni od ossa, cioè per operare con un movimento avanti-indietro. I grattatoi frontali corti o circolari erano probabilmente strumenti per lisciare e piallare di uso generale. I grattatoi carenati a muso, in genere più grandi e più pesanti, erano utilizzati probabilmente come pialla per sgrossare. In questi casi il movimento era in avanti.
Tra gli strumenti più facili da comprendere in relazione al loro uso ci sono le punte destinate a essere immanicate come cuspidi di freccia o come lame di pugnale.

IL MESOLITICO ED IL NEOLITICO II

Diversificazione e alleggerimento degli strumenti.

La classificazione degli strumenti è una miscela di denominazioni convenzionali, in parte funzionali in parte puramente morfologiche. In realtà non sappiamo con precisione l'uso effettivo a cui erano destinati gli strumenti di pietra scheggiata. Si è sempre supposto che venissero utilizzati per tagliare la carne, confezionare le pelli e lavorare il legno. Gli studi sul significato funzionale delle microtracce d'usura hanno confermato questi diversi usi, ma non sempre in conformità alle denominazioni adottate dagli archeologi per gli strumenti. Le azioni più frequentemente evidenziate sono quelle di decorticazione, piallatura, lisciatura e sagomatura del legno e di taglio, scarnificazione e raschiamento delle pelli.
Le classificazioni comunemente impiegate per gli strumenti del Paleolitico Medio e Superiore, per il Mesolitico e poi anche il Neolitico e in parte l'età del Rame e del Bronzo, comprendono alcune famiglie e gruppi tipologici denominati: bulini, grattatoi, lame a dorso, punte a dorso, troncature, dorsi e troncature, becchi o perforatori, armature geometriche, punte foliate, raschiatoi foliati, punte, raschiatoi, denticolati, pezzi scagliati.
Per alcuni gruppi si possono proporre, in base a criteri puramente formali, al ritrovamento di strumenti immanicati, alle tracce d'uso e ai confronti etnografici alcuna funzioni.
Le lame e le punte a dorso dovevano essere strumenti da taglio, paragonabili ai nostri coltelli.
La parte attiva era il bordo naturalmente tagliente, mentre il dorso ottenuto con il ritocco erto aveva lo scopo di facilitare uno stabile inserimento in un supporto funzionante da manico o di permettere l'appoggio del dito durante l'uso dello strumento.
I bulini, caratterizzati da un robusto e stretto taglio trasversale come quello di uno scalpello, avevano la funzione di incidere legno, osso e corno per fare scanalature in modo da ottenere dei manici o supporti per immanicare altri strumenti di selce. I bulini servivano certamente anche per eseguire incisioni a scopo decorativo.
I becchi o perforatori dovevano essere utilizzati per fare dei fori in materiali come il legno, l'osso e la pelle. Le lame denticolate o con incavi servivano probabilmente per decorticare e squadrare il legno, ad esempio per preparare la aste di giavellotti o frecce. Si possono quindi assimilare allo strumento, in uso soprattutto nelle aree montane, detto scortecciatoio o coltello a due manici (in inglese draw-knife o spoke- shave).
I grattatoi sono caratterizzati da una fronte in cui il ritocco forma con la faccia ventrale della scheggia o della lama un angolo di circa 60° e servivano per operazioni di raschiatura, lisciatura e piallatura nella concia delle pelli e nella lavorazione del legno e dell'osso.
I grattatoi frontali lunghi possono essere stati utilizzati per raschiare pelli, rimuovere la corteccia dagli alberi, incavare legni od ossa, cioè per operare con un movimento avanti-indietro. I grattatoi frontali corti o circolari erano probabilmente strumenti per lisciare e piallare di uso generale. I grattatoi carenati a muso, in genere più grandi e più pesanti, erano utilizzati probabilmente come pialla per sgrossare. In questi casi il movimento era in avanti.
Tra gli strumenti più facili da comprendere in relazione al loro uso ci sono le punte destinate a essere immanicate come cuspidi di freccia o come lame di pugnale.

IL MESOLITICO ED IL NEOLITICO

GLI UTENSILI PREISTORICI IN PIETRA SCHEGGIATA



I più antichi gesti tecnici.

Per la preistoria più antica quando si viveva esclusivamente di caccia e raccolta (Paleolitico e Mesolitico), la documentazione archeologica è costituita soltanto da strumenti litici, fabbricati scheggiando e ritoccando determinate pietre. In realtà si utilizzava largamente anche il legno e a partire dal Paleolitico Superiore l'osso e il corno, ma la conservazione dei manufatti in materiale organico deperibile è estremamente rara, poiché richiede condizioni anaerobiche che in genere si presentano solo nelle torbiere.
Per fabbricare strumenti e utensili si sceglievano pietre che hanno la proprietà di sfaldarsi facilmente producendo spigoli taglienti, come ad es. la selce, il quarzo, il diaspro, l'ossidiana, il cristallo di rocca, e, in mancanza di questi, anche materiali meno adatti come ciottoli di lava, calcare o travertino. Il più importante di questi materiali è la selce, ampiamente diffusa in Europa e reperibile sotto forma di noduli o masselli in alcune formazioni geologiche e in depositi alluvionali o sotto forma di ciottoli nelle morene e nel greto dei fiumi. La selce è una roccia silicea di origine sedimentaria, prodotta dall'aggruppamento di resti silicizzati organogenici, come ad es. gli scheletri dei radiolari, ed è caratteristica delle formazioni calcaree giurassiche e cretaciche, mentre analoghe rocce silicee di formazioni geologiche differenti prendono il nome di "chert".
I processi di fabbricazione degli strumenti di pietra scheggiata mostrano una chiara evoluzione tecnologica nel corso del tempo, ma anche una grande unità e continuità attraverso il concatenamento e la filiazione delle varie tecniche. Le innovazioni aggiunsero operazioni tecniche nuove senza che quelle antiche fossero abbandonate.
La nascita dell'utensile si verifica tra 2,5 e 2 milioni di anni fa nell'Africa orientale ad opera dell'Homo habilis. Un ciottolo intenzionalmente scheggiato in modo da ottenere un margine tagliente costituisce il primo strumento artificiale, fabbricato da un primate bipede che classifichiamo proprio per questo fatto nel genere Homo e che si colloca sulla diretta linea ancestrale della nostra specie. Le più antiche industrie litiche, l'Olduvaiano e l'Acheuleano, hanno avuto una durata immensa, all'incirca un milione di anni ciascuna. L'Acheuleano, il cui autore è l'Homo erectus, si è diffuso in Europa a partire da circa 600-500 mila anni fa. Il gesto tecnico di queste più antiche industrie è quello della percussione diretta: un ciottolo o un nucleo vengono colpiti con un percussore di roccia dura in modo da staccare alcune schegge e creare un bordo tagliente corto e irregolare.
L'utilizzazione dell'impronta lasciata dallo stacco delle schegge come nuovo piano di percussione aprì la via alla fabbricazione di forme più complesse, con una sgrossatura più o meno completa di un ciottolo o di un nucleo in modo da ottenere un bifacciale di forma ovale o a mandorla. Alla sgrossatura per percussione diretta si aggiunse in seguito il ritocco con percussore tenero di legno duro, di osso o di corno, che consentiva di regolarizzare e affilare i bordi taglienti dei bifacciali, o di preparare un nucleo per staccare schegge di forma predeterminata (tecnica levalloisiana).
Questi progressi furono realizzati probabilmente da forme avanzate di Homo erectus o da forme arcaiche di Homo sapiens.

L'AGRICOLTURA PREISTORICA

Dalla raccolta alla produzione di cibo.

Le genti neolitiche europee continuarono per lunghi secoli a praticare la caccia, la pesca e la raccolta, perché le loro tecniche agricole erano ancora troppo primitive per garantire una produzione di cibo sufficiente alla sopravvivenza della comunità.
La loro agricoltura era ciclica e itinerante : non conoscendo le tecniche per rinnovare la fertilità del suolo con la concimazione e la rotazione dei coltivi, la terra si esauriva rapidamente. Ecco perché i villaggi neolitici avevano una durata molto breve, non più di 8-15 anni.
Anno dopo anno si abbatteva un tratto di foresta e si dissodavano nuovi terreni. Quando i campi diventavano troppo lontani, si abbandonava il villaggio per trasferirsi altrove.
Nel corso del IV millennio a.C. si verifica quasi una seconda rivoluzione neolitica. Gli animali non vengono più allevati esclusivamente come produttori di carne, ma anche per i loro prodotti secondari, in particolare latte e lana, e come forza di trazione.
Le innovazioni più importanti furono l'utilizzazione del latte per l'alimentazione umana e per la produzione di formaggi e burro e lo sfruttamento del vello della pecora per la filatura di lana e quindi per la tessitura. Il diffondersi della pecora lanosa è indirettamente dimostrato dal comparire, nel tardo Neolitico, di fusarole e pesi da telaio in terracotta.
Effetti rivoluzionari per la vita delle genti neolitiche ebbe anche l'aggiogamento dei buoi per la trazione di carri a quattro ruote e dell'aratro. I buoi domestici della preistoria europea erano di piccole dimensioni e appartenevano a due specie, una a corna spesse e lunghe e una a corna sottili e corte. Infatti il processo di domesticazione ebbe come effetto una progressiva diminuzione che tocco' il suo culmine nell'età del Bronzo, quando l'altezza del garrese era di circa cm. 112-115, in confronto ai cm. 135 delle specie moderne. Oltre all'aratro in legno e all'ascia di pietra verde levigata, uno strumento di grande importanza per l'agricoltore neolitico è la falce con corpo in legno sagomato e lama costituita da elementi in selce.
Le falci più antiche sono in realtà dei coltelli messori ( vale a dire usati per mietere). Il loro uso è testimoniato dal sickle gloss, la caratteristica lucentezza prodotta sul taglio della lama dallo sfregamento dei granelli di silice contenuti nello stelo dei cereali. I coltelli messori dritti o leggermente ricurvi, senza soluzione di continuità tra manico e corpo, compaiono per la prima volta in Palestina, in Egitto, in Mesopotamia e nei Balcani.
La falce messoria a lama ricurva e impugnatura distinta è attestata in Mesopotamia fin dal V millennio a.C. e in Egitto dalla
I dinastia ( circa 3000 a.C. ).
In Egitto, un paese tecnologicamente poco innovatore, questo strumento rimarrà più o meno inalterato nel corso del tempo: supporto in legno e lama formata da diversi elementi in selce incastrati nella scanalatura e fissati con mastice.
Nell'Europa del Neolitico e dell'età del Rame predominano i coltelli messori con lama formata da un solo elemento in selce incastrati nella scanalatura e fissati con mastice.
Nell'Europa del Neolitico e dell'età del Rame predominano i coltelli messori con lama formata da un solo elemento in selce, a volte inserito obliquamente ( Egolzwil 3, cultura del Bicchiere Imbutiforme ), ma più spesso parallela al corpo dello strumento.
In Italia l'evoluzione della falce è molto ben documentata nelle culture dell'età del Bronzo. Si tratta di uno strumento ancora legato alla tradizione dell'industria litica, non un prodotto della nuova metallurgia.
Nelle fasi più arcaiche della cultura di Polada vi è un coltello messorio a corpo e manico dritto, in legno, terminante in una lunga appendice obliqua, che serviva per riunire gli steli dei cereali in un fascio. Esemplari più o meno completi sono venuti in luce in vari siti poladiani compreso il Lavagnone.
Nelle fasi più recenti della cultura di Polada si diffonde la falce del tipo detto "a mandibola", non molto diversa dagli esemplari scoperti in Egitto.
Al Lavagnone è stato trovato il corpo in legno di una falce in corso di lavorazione, privo della scanalatura in cui venivano inseriti gli elementi in selce. Questo tipo di falce continuo' ad essere usato nella media età del Bronzo, come dimostrano gli innumerevoli elementi di falcetto di selce caratteristici degli abitati di quest'epoca e un esemplare completo ritrovato a Flavé nella palafitta della Zona 1.
Ma già nel Bronzo Medio, sia in Italia che in buona parte d'Europa, si incominciano a fabbricare falci in bronzo. I nuovi strumenti in metallo hanno una forte diffusione nel Bronzo Recente e Finale, mentre i tradizionali falcetti con gli elementi in selce progressivamente tendono a scomparire dagli abitati.

ABBIGLIAMENTO E ORNAMENTI

La via dell'ambra.

Sull'abbigliamento delle genti dell'età del Bronzo le conoscenze sono abbastanza scarse. Certamente si utilizzavano abiti di tessuto di lino e di lana, nonchè di pelli di capra e di cervo.
Le palafitte svizzere e italiane hanno restituito frammenti di tessuti, soprattutto di lino, che ci informano sulle tecniche di lavorazione. Si producevano tessuti di colore uniforme oppure decorati a riquadri colorati, del tipo cd. scozzese (documentati anche dalla ricca decorazione geometrica delle stele antropomorfe dell'età del Rame scoperte ad Aosta e Sion), a broccato e a ricamo. I colori sono quasi sempre perduti a causa della carbonizzazione del tessuto. Un tessuto di lana rinvenuto nelle miniere di sale di Dürnberg nel Salisburghese e datato al Bronzo Finale, presentava motivi di colore bruno scuro e verde su fondo giallo chiaro, un altro ancora motivi blu e viola scuro. I colori impiegati per la tintura dei fili erano di origine vegetale: il blu si ricavava dall’ontano nano (Sambucus ebulus),il giallo dal guado (Reseda luteola), il rosso dal Chenopodium album o dal Galium palustre, il lillà dal mirtillo (Vaccinium myrtilus).
Per quanto riguarda la forma e il tipo di abiti, gli unici documenti disponibili provengono dalle sepolture entro bare di tronchi di quercia scoperte in Danimarca. Le donne indossavano una camicetta a maniche corte e una gonna lunga fino al ginocchio, gli uomini una tunica, stretta in vita da una cintura, e un mantello.
Gli spilloni di bronzo o di osso o corno avevano la funzione delle attuali fibbie di sicurezza o dei nostri bottoni.
Sono numerosi gli oggetti di ornamento ritrovati negli abitati o nelle tombe. I più frequenti sono gli elementi di collana che mostrano una grandissima varietà : perline di calcite e di steatite; tubetti di Dentalium fossile; piastrine di madreperla ritagliate da valve di lamellibranchi; conchiglie marine, soprattutto Cardium o Pectunculus, perforate all’umbone; denti di animali forati alla radice (specialmente canini di orso, di volpe, lupo, cervo, cinghiale); perline di pasta vitrea di colore verde-azzurro e, infine, perle di ambra.
L’ambra è una resina fossile, di cui esistono molte varietà che si differenziano per le loro caratteristiche fisiche e chimiche, per la provenienza geologica e per la distribuzione geografica. Le analisi mediante spettroscopia di assorbimento dell’infrarosso hanno dimostrato che l’ambra dell’età del Bronzo e poi dell’età del Ferro è di provenienza nordica. Le principali regioni di origine erano le coste occidentali della penisola dello Jutland e le coste dei paesi baltici, in particolare della penisola del Samland nella baia di Danzica e della Lettonia.
L’ambra baltica, detta anche succinte per l’alto contenuto di acido succinico, è una resina secreta da un pino dell’epoca terziaria, il Pinus succinifera, diffuso durante l’Oligocene nell’Europa settentrionale. Il suo colore naturale varia dal giallo chiaro al rosso cupo. Affiora naturalmente a causa dell’erosione del mare e dei fiumi lungo la fascia che costituì il limite meridionale delle fronti dei ghiacci durante il Pleistocene.
Nell’Europa settentrionale l’ambra era conosciuta e utilizzata da millenni per fabbricare oggetti di ornamento, ma è soltanto verso la fine del Bronzo Antico che ha inizio il suo commercio con le regioni dell’Europa centrale e mediterranea, destinato a perdurare fino all’epoca romana e medioevale.
Per le sue qualità estetiche – colore, leggerezza, limpidezza – oltre che per la sua provenienza esotica, essendo oggetto di scambi a lunga distanza, l’ambra fu considerata un materiale prezioso di grande valore e probabilmente anche dotato di valenze magiche in virtù delle sue qualità elettrostatiche.
Gli ornamenti d’ambra cominciano a diffondersi intorno al XVIII-XVII secolo a. C. nella cultura di Unetice della Boemia, quindi nella cultura del Wessex del sud dell’Inghilterra e nella cultura di Polada in Italia settentrionale. Durante il Bronzo Medio l’uso di ornamenti d’ambra si generalizza nella cultura dei Tumuli dell’Europa Centrale e in quella palafitticola e terramaricola del Nord Italia. A partire dal XVII-XVI secolo l’ambra compare anche nella Grecia micenea. Nell’area culturale palafitticolo-terramaricola l’ambra si trova sotto forma di perle globulari o a disco globulare o più raramente biconiche. Perle d’ambra oltre che come elementi di collana, erano utilizzate anche come fermapunte per gli spilloni come dimostrano i ritrovamenti della necropoli di Franzine Nuove (Verona). Uno spillone della palafitta della Maraschina (Sirmione) aveva una perla globulare d’ambra come capocchia.
Dalla distribuzione dei ritrovamenti è possibile ricostruire le vie seguite dal commercio dell’ambra. Durante l’età del bronzo, fino al XII sec. a C., la maggior parte dell’ambra proveniva dallo Jutland ed era diffusa lungo le coste del mare del Nord fino al Wessex e alla Bretagna, e lungo le vie fluviali del Reno e dell’Elba verso sud e sud-est, fino alla regione alpina e al bacino carpatico. In Italia il percorso dell’ambra seguiva certamente al valle dell’Adige, dalla Val Venosta fino al lago di Garda.
Non è invece chiaro per quali vie giungesse in Grecia, se cioè dal bacino carpatico o dall’Italia settentrionale, dal momento che i ritrovamenti di ambra nell’età del Bronzo della penisola italiana o nei Balcani centromeridionali sono poco frequenti. A Micene e a Kakovatos in Grecia, nella cultura dei Tumuli della Germania sud-occidentale e nella cultura del Wessex in Inghilterra si trovano placchette d’ambra con perforazioni complesse, che servivano come separatori dei fili delle collane e che dimostrano l’esistenza di rapporti tra queste regioni, confermati anche dai dischi d’ambra con i bordi incapsulati da una foglia d’oro ritrovati a Creta (Isopata, tomba delle bipenni) e nello Wiltshire.
A partire dal Bronzo Finale (XII-X sec.a.C.) e durante l’età del Ferro la via dell’ambra si sposta più a oriente. La principale zona di approvvigionamento diventa il Baltico e dal corso  inferiore della Vistola fino alla Slesia, dalla Moravia fino al Danubio la nuova via dell’ambra giunge alla foce dell’Isonzo, dove poi sorgerà Aquileia, il principale centro del commercio e della lavorazione dell’ambra in età romana.

LA LAVORAZIONE DELL'OSSO E DEL CORNO

Una tradizione millenaria.

L’osso, specialmente dei mammiferi domestici come il bue, il maiale, la capra o la pecora, e il corno di cervo e di capriolo costituivano nella preistoria un’importante fonte di materia prima per fabbricare strumenti, in genere di piccole dimensioni, che avevano il pregio di essere molto resistenti ai processi di usura. Durante l’età del Bronzo, soprattutto antica e media, in osso venivano prodotti punteruoli, lesine, aghi, spatole, lisciatoi. Per fabbricare i punteruoli si usavano ossa lunghe come ulna, radio e fibule di bue, capra, pecora o maiale oppure metapodi di capra, pecora o eventualmente di capriolo. Nel caso delle ossa lunghe la base dello strumento era costituita dall’epifasi, intera o dimezzata, utilizzata come impugnatura; la parte distale, invece, veniva modificata in maniera più o meno importante mediante taglio, raschiatura e levigatura. Questo genere di punteruoli o perforatori è molto frequente negli insediamenti palafitticoli. Impugnati direttamente dalla mano e ruotati alternativamente da sinistra a destra e viceversa in modo da perforare, erano certamente utilizzati nella lavorazione delle pelli. Gli aghi per cucire venivano ricavati, in genere, da fibule di maiale o da schegge di ossa lunghe, le spatole e i lisciatoi per lo più da costole. In questi strumenti la punta e tutta l’estremità distale spesso appaiono molto lisce e lucide, indizio di un uso prolungato. Resti di palchi di corna di cervo sono molto frequenti negli abitati dell’età del Bronzo. Il corno di cervo era utilizzato per fabbricare una vastissima gamma di strumenti e di oggetti di ornamento : guaine per l’immanicatura delle asce, zappette, picchi, martelli, raschiatoi, strumenti con taglio a biseau ( “fenditoi” ), manici di lesine e di punteruoli in bronzo, immanicature di acciarini di selce, cuspidi, di freccia, pomi di manici di pugnali, rivestimenti di impugnature di pugnali e di spade, montanti di morsi di cavalli, ganci da cintura, spilloni, capocchie di aghi crinali, pettini, bottoni a spola fusiformi, alamari, navette, ecc. A volte i manufatti in corno erano accuratamente decorati a incisione con motivi geometrico- lineari oppure a occhi di dado.
Per la confezione di tutti questi manufatti erano utilizzati i palchi caduti naturalmente in seguito alla muta, verso la fine dell’inverno, e raccolti nei boschi, poiché sono più calcificati e quindi più resistenti. Il corno di cervo era lavorato sia con strumenti di selce sia con lame di bronzo. I procedimenti tecnici impiegati comprendevano l’intaglio, la scortecciatura, la levigatura, il ritaglio a percussione, il taglio con la sega. Il palco era sfruttato in tutte le sue parti ed esisteva una vera e propria specializzazione per cui ciascuna parte -la rosetta, l’asta, le ramificazioni, la corona- era predestinata a determinati tipi di manufatti. Ad esempio guaine per asce, martelli e zappette erano ricavati dalla rosetta, i picchi della rosetta e del ramo inferiore detto pugnale, i pettini delle placchette ottenute dalle aste, i pomi della base della corona, i montati e alcune immanicature  della terminazione delle ramificazioni. Il punto di partenza per la fabbricazione di tutta una serie di manufatti era una placchetta ridotta  a spessore uniforme. Quelle di maggiore ampiezza si potevano ottenere intagliando due scanalature parallele sulla parte esterna delle aste, poi agendo lateralmente sul fondo delle scanalature si svuotava la parte interna spugnosa fino a quando facendo leva si poteva staccare una placca più o meno lunga, che doveva essere sgrezzata con la lisciatura mediante un grattatoio per eliminare la rugosità sia della faccia midollare che di quella corticale. La placchetta veniva quindi ritagliata per confezionare il manufatto. A questa tecnica molto antica – la lavorazione ha una tradizione plurimillenaria, avendo avuto inizio durante il Paleolitico Superiore – si aggiunsero nell’età del Bronzo la fenditura longitudinale e il taglio con la sega. Nell’età del Bronzo, la lavorazione del corno conosce una grande diffusione ed è considerata uno degli aspetti più caratteristici della cultura palafitticola-terramaricola  del Bronzo Medio e Recente. I manufatti più frequenti sono le cuspidi di freccia, lunghe da 2 a 10 cm, che pur presentando fogge abbastanza standardizzate, possono variare per la forma della punta (piramidale o conica) e del peduncolo (nettamente distinto da un gradino oppure senza stacco rispetto alla punta), per la presenza o assenza di alette in numero variabile da 2 a 4 e di un collarino tra punta e peduncolo, per il diverso rapporto lunghezza della punta/lunghezza del peduncolo, che può essere 1:1 o 2:1.
Dopo le frecce, i pattini, gli spilloni, le teste di aghi crinali a disco o a ruota raggiata sono i manufatti più frequenti. Alcuni pettini potevano essere oggetti relativi all’acconciatura femminile, altri erano utilizzati probabilmente nella lavorazione delle pelli per depilarle. La lavorazione del corno continua ancora attivamente nell’età del Bronzo Finale, mentre nel corso dell’età del Ferro, pur non scomparendo, conosce un netto declino, limitandosi a qualche impugnatura e a qualche oggetto ornamentale.

LA METALLURGIA DEL BRONZO NELL'EUROPA PREISTORICA IV

Le forme di fusione.

Dopo aver raggiunto il punto di fusione del metallo, il crogiolo contenente la lega di rame e stagno allo stato liquido doveva essere versato nella forma di fusione che recava l'impronta al negativo dell'oggetto che si voleva fabbricare.
Gli stampi potevano essere di pietra o di terracotta, aperti a monovalve o chiusi a due valve.
Gli stampi aperti erano usati nell'età del Rame e nelle fasi arcaiche del Bronzo Antico, in seguito rimasero a lungo in vigore per alcuni manufatti come le falci, che dovevano avere una faccia piana, anche se in realtà gli stampi per questi oggetti erano chiusi da una pietra piatta.
Le pietre più comunemente utilizzate per gli stampi erano l'arenaria, il gres, la steatite, la pietra ollare, e gli schisti micacei.
Gli stampi di pietra sono più diffusi di quelli di terracotta, almeno nell' Italia settentrionale. Certamente occorreva molto tempo per fabbricarli, ma poi potevano essere utilizzati ripetutamente per produrre rapidamente una serie di oggetti sempre identici. L'uso di stampi multipli, in cui ogni faccia serviva come matrice di un oggetto diverso, è ben documentato a partire da una fase avanzata del Bronzo Medio.
Gli stampi bivalvi erano provvisti di fori ciechi in cui inserire perni per l'esatta collimazione delle due parti, e di sottili canalette di sfiato.
Dall'area della cultura di Polada prima e benacense-terramaricola poi provengono almeno una settantina di forme di fusione, la quasi totalità in pietra. Le matrici più frequenti sono per asce, cuspidi di lancia e falci, quindi per pugnali, rasoi,spilloni e spade.
Gli stampi di terracotta offrivano il vantaggio di una rapida preparazione, di un raffreddamento piu' lento (mentre un raffreddamento rapido del metallo durante la colata poteva rendere il pezzo disomogeneo) ma lo svantaggio di servire una sola volta. Per fabbricare stampi di terracotta si utilizzavano modelli di legno per imprimere l'impronta del manufatto, poi l'argilla veniva fatta seccare e quindi cuocere. Al momento dell'uso il nucleo refrattario era avvolto con un rivestimento di argilla più' grossolana. Dopo la colata, per recuperare il manufatto, la forma doveva essere spezzata. L'uso del modelli di legno e' comprovato non solo da ritrovamenti effettuati in Irlanda, ma anche dall' osservazione frequente della trama delle fibre del legno riprodotta sulla superficie dei manufatti, specialmente nel caso delle lame di spada.
Per i manufatti che dovevano avere una parte interna cava, come le cuspidi di lancia con innesto a cannone o le impugnature di pugnali e spade, veniva posizionata nella forma di fusione un' anima in cotto, che poi poteva essere eliminata dall'oggetto finito come nel caso delle cuspidi di lancia che dovevano essere innestate sull' asta di legno, o conservata come nel caso delle impugnature.
La fusione a cera persa era già praticata nell' età del Bronzo e poteva essere utilizzata per fusioni piene di oggetti di piccole dimensioni o per fusioni cave di oggetti più grandi.
Nella tarda età del Bronzo si diffonde anche l'uso di stampi bivalvi di bronzo, soprattutto per le asce. Sono molto numerosi nell'area della metallurgia atlantica (Irlanda, Inghilterra, Francia e Spagna), mentre compaiono piu' sporadicamente in Italia e altrove.
Poiché l' uso di matrici di bronzo per fusioni di manufatti in bronzo non trova alcun riscontro nella metallurgia moderna, si è discusso a lungo sull' effettiva funzionalità di questi stampi, che è stata tuttavia confermata da prove sperimentali. Era sufficiente una leggera ingubbiatura della faccia interna della matrice con talco o polvere di carbone per prevenire una saldatura dell'oggetto fuso al suo stampo.

LA METALLURGIA DEL BRONZO NELL'EUROPA PREISTORICA III

La posizione sociale del fabbro e i suoi attrezzi.

Il fabbro dell'età del Bronzo oltre al metallo importato dai centri minerari sotto forma di lingotto, utilizzava largamente per la sua produzione i rottami recuperati sistematicamente: getti di fusione, masselli, strumenti vecchi divenuti inservibili o spezzati. L'utilizzazione dei rottami si accentua a partire dalla media età del Bronzo, come dimostra la composizione dei ripostigli e dei resti di fonderia scoperti in molti abitati sia palafitticoli (ad es. la Lugana Vecchia, presso Sirmione) che terramaricoli (ad es. Castellarano in provincia di Reggio Emilia).
La posizione sociale del fabbro nella società europea  dell' età del Bronzo è stata oggetto di accese discussioni. Senza dubbio in questo periodo il fabbro è l'unico artigiano che in virtù della sua alta specializzazione lavora a tempo pieno e non può essere coinvolto nella produzione primaria.
Nei periodi più antichi i fabbri erano certamente itineranti e prestavano la loro opera presso diverse comunità, a volte anche molto distanti l'una dall'altra, e ciò è evidenziato dagli evidenti rapporti tecnologici e stilistici esistenti tra le varie cerchie metallurgiche europee e al loro interno (padana, italica, centro-europea, atlantica, nordica, carpato-danubiana, baltica, nord-pontica, ecc.). In un periodo più recente, che ha inizio in momenti diversi a seconda delle regioni, il fabbro diventa un artigiano inserito stabilmente nella comunità per cui lavora, anche se il fenomeno dell'artigiano metallurgo ambulante non scomparirà mai del tutto.
Questo passaggio sembra adombrato in alcuni miti del mondo classico. Esistevano, nella mitologia greca, comunità di diversi, circondate da un alone di magia e di mistero, come i Chalibi del Mar Nero, i Cabiri, i Dattili Idei a Creta, in cui possiamo riconoscere la diversità socio-culturale, e in una certa misura anche l'emarginazione, dei più antichi artigiani del metallo.
Il mito di Efesto/Vulcano, il dio delle arti metallurgiche, che inizialmente non abitava stabilmente nell'Olimpo insieme agli altri dei, ma vi fu ammesso soltanto in un secondo tempo, sembra riflettere l'evoluzione della posizione sociale del fabbro preistorico.
Il progresso di integrazione nella comunità nell'aria palafitticola benacense ha avuto inizio forse fin dal Bronzo Recente. Il ritrovamento di migliaia di oggetti di bronzo nelle palafitte di Peschiera sembra, infatti, presupporre l'esistenza di officine ormai stabili.
Gli strumenti del lavoro del fabbro nell'età del Bronzo erano innanzitutto il crogiolo, il mantice per ventilare la fornace, la forma di fusione, l'incudine e il martello per battere il metallo, punzoni e scalpellini per le decorazioni.
I crogioli si rivengono frequentemente negli abitati e hanno forma ovale e differenti dimensioni, in genere da 1 a 10 cm. di lunghezza, e ciò è in rapporto con la predeterminazione della quantità di bronzo da utilizzare per i diversi tipi di oggetti da fondere.
Il manufatto indizio di attività metallurgica che si scopre più frequentemente negli abitati dell'età del Bronzo è l'ugello in terracotta dei mantici.
Se ne conoscono due gruppi : il primo, di forma conica e di piccole dimensioni (lunghezza max 14 cm.), si trova negli abitati dell'antica e media età del Bronzo, il secondo ha una forma a corno e di maggiori dimensioni, fino a 30 cm. di lunghezza, ed appare per la prima volta nel Brozo Recente negli abitati terramaricoli dell'area padana.
Una pittura murale della tomba di Rekhmire, visir di Tebe sotto Thutmose III (ca. 1504-1450 a.C.) e Amenhotep II (1450-1426 a.C.), illustra il funzionamento degli augelli del primo tipo: servivano per i mantici di piccole fornaci all'aperto.
Gli augelli del secondo gruppo documentano uno sviluppo tecnico legato a fornaci a fossa o a camera, capaci di raggiungere temperature più elevate.
La comparsa dei grossi lingotti a sezione piano-convessa a partire dal Bronzo Recente probabilmente è da porre in relazione con l'adozione di forni di questo nuovo tipo, che con un solo carico permettevano di ottenere una maggiore quantità di metallo rispetto ai periodi precedenti  grazie alla temperatura più elevata e più costante che si riusciva a ottenere.

LA METALLURGIA DEL BRONZO NELL'EUROPA PREISTORICA II

L'evoluzione delle tecniche e la circolazione della materia prima.

Nelle prime fasi dell’antica età del Bronzo i manufatti erano di rame puro o di rame con piccole percentuali di antimonio, arsenico, argento e nichel, che insieme raggiungevano un tenore sufficiente a dare le caratteristiche di una lega e quindi ad aumentare la durezza del rame. Verso il 2000-1900 a.C. si diffondono i primi oggetti di bronzo, in genere con una bassa percentuale di stagno, ma nelle ultime fasi dell’antica età del Bronzo il bronzo standard, con un tenore di stagno variabile dall' 8 al 12%, è già diventato di uso comune.. Se all’inizio la percentuale di stagno può subire oscillazioni anche forti, in seguito la composizione dei manufatti diventa molto omogenea e varia soltanto a seconda dei tipi di oggetti che si vogliono fabbricare. Ad es. nell’area palafitticoloterramaricola si conoscono leghe iperstannifere per alcuni oggetti come spilloni e pendagli; in questo caso la maggiore percentuale di stagno aveva lo scopo di aumentare la fluidità della lega per facilitare la colata nello stampo.
Verso la fine del Bronzo Medio e nel Bronzo Recente diventa frequente l’aggiunta di piombo alla lega, probabilmente allo scopo di risparmiare stagno.
Agli inizi del Bronzo Antico l’uso del bronzo appare abbastanza limitato. Come nella precedente età del Rame, il metallo è ancora una materia preziosa  e un simbolo di prestigio sociale, ma senza una reale incidenza sul mondo della produzione primaria. Nel giro di pochi secoli, la produzione del Bronzo si intensifica e si diversifica fino a divenire, nel Bronzo Recente, completamente integrato nella vita quotidiana e nell’economia, riducendo sempre più l’uso della pietra e della selce. La gamma dei manufatti si amplia in modo considerevole: spilloni, pendagli, armille, braccialetti, anelli, orecchini, rasoi, pinzette, pugnali, alabarde, spade, elmi, coltelli, cuspidi di lancia, punte di freccia; armi, teste di fiocina; asce da lavoro e da battaglia, falci, roncole, raffi, lesine, punteruoli, seghe, lime, scalpelli, raspe, sgorbie, martelli, incudini.
Nel XIII sec. a.C. compare, grazie ai contatti con il mondo miceneo, la tecnica della laminatura del bronzo per fabbricare vasi come situle, tazze, colini, e inoltre placche da cintura, schinieri, corazze, scudi.
La diffusa presenza di matrici e attrezzi per la lavorazione dei metalli negli abitati di regioni del tutto prive di risorse minerarie come le pianure alluvionali, ad es. la pianura padana, dimostra che la produzione dei manufatti avveniva localmente, ma la materia prima, il rame e lo stagno, dovevano essere importati. La capillare diffusione e l’importanza assunta dalla metallurgia presuppongono, quindi, un’attiva ed efficiente rete di scambi a breve e lunga distanza.
Il rame circolava sotto forme diverse a seconda dei periodi e delle cerchie artigianali. Durante il Bronzo Antico nell’Europa centrale i lingotti avevano la forma di piccole barre con le estremità ricurve (Rippenbarren) , diffuse soprattutto in Boemia, Baviera meridionale e Svevia, oppure di collari a capi aperti e arrotolati (Torques), diffusi in grandissimo numero specialmente in Moravia, nell’Austria inferiore, lungo i corsi dell’Elba e dell’Oder e in Baviera, oppure di bipenni con un piccolo foro mediano, diffuse dalla Sassonia alla Renania.
In Italia durante il Bronzo Antico-Medio il rame circola sotto forma  di piccoli pani a focaccia, del peso variante da 400 a 600gr., o di barrette quadrangolari. A partire dal XIII sec. a. C. diventa generale l’uso di pani di forma circolare e sezione piano-convessa, del diametro di 20-26 cm. e del peso di 6-9 kg.
Un altro tipo di lingotto, che si ritrova in Sardegna, nella regione alpina e nell’Italia centro-settentrionale durante il Bronzo Finale, è il pane a piccone o lingot-saumon.
Nelle regioni mediterranee centro-orientali tra il XVI e il XII sec. a.C. il rame è commerciato sotto forma di lingotti a pelle di bue. Quelli più antichi, del XVI-XV sec. a. C., sono noti soltanto a Creta, nell’ Egeo e in Asia Minore, quelli più recenti hanno una maggiore diffusione, essendo stati scoperti in Siria, a Cipro, in Asia Minore, in Grecia, in Sicilia e in Sardegna. Si ritiene che il centro produttore di questi lingotti fosse Cipro, dal cui nome deriva la parola per rame in molte lingue europee.
Sulla provenienza dello stagno durante l’età del Bronzo non si sono ancora raggiunte conclusioni sicure. Certamente a partire dal Bronzo Finale, come poi per tutta l’età del Ferro e anche all’epoca dell’impero romano, lo stagno proveniva dalle regioni atlantiche (Cornovaglia, Bretagna, Galizia).

LA METALLURGIA DEL BRONZO NELL'EUROPA PREISTORICA

L'attività mineraria.

Il bronzo, lega di rame e di stagno, cominciò a diffondersi in Europa poco dopo il 2000 a. C. In alcune regioni già da millecinquecento anni si conosceva e utilizzava il rame, a volte in lega con l’arsenico. Nelle fasi più arcaiche dell’antica età del Bronzo (2250 – 1900 a. C.), soprattutto nell’Europa centrale e nell’Italia settentrionale, si passò all’uso del rame ottenuto per smelting di minerali tipo Fahlerz, la cui riduzione consentiva di produrre un rame con piccole percentuali di antimonio, arsenico, argento e nichel, che sommandosi davano l’effetto di una lega e quindi una maggiore durezza. Ad esempio, l’ascia a margini rialzati scoperta nella palafitta più antica del Lavagnone, la stessa in cui è venuto alla luce l’aratro, è stata fabbricata con questo tipo di rame.
Verso il 1900 a. C. si osserva la comparsa e poi la rapida diffusione della lega di rame e stagno in gran parte dell’Europa. Il bronzo era già noto da molto tempo nel Vicino Oriente ma la sua produzione era sempre stata piuttosto limitata e aveva coesistito con l’uso del rame puro e della lega di rame e arsenico. A partire dagli inizi del II millennio a. C. anche nel Vicino Oriente, così come nell’Egeo e in Grecia, la diffusione della lega di rame e stagno si generalizza e soppianta le precedenti forme di metallurgia.
A cosa sia dovuto questo fenomeno non sappiamo bene, specialmente perché rimane un problema irrisolto la precisa provenienza dello stagno durante il II millennio a. C. Lo stagno, infatti, è un metallo particolarmente raro. Fino a tutto il XVIII sec. a. C. lo stagno utilizzato nelle civiltà del Vicino Oriente arrivava da est, probabilmente dall’Afghanistan, lo stesso paese da cui proveniva il lapislazzuli. Durante il I millennio a. C., cioè nell’età del Ferro, così come poi anche in età romana, lo stagno proveniva dalle regioni atlantiche (Cornovaglia, Bretagna, Galizia), come è attestato sia da fonti antiche sia dalla documentazione archeologica.
Secondo una vecchia tesi, la scoperta della lega rame-stagno in Europa è avvenuta nella regione dell’Erzgebirge, dove ci sono depositi di stannite e cassiterite. Mancano, tuttavia, prove archeologiche del loro sfruttamento in età preistorica.
Al contrario dello stagno il rame era ampiamente diffuso e importanti giacimenti si trovavano in Irlanda, in Inghilterra, nella penisola iberica, in Linguadoca, in Toscana, nella Slovacchia, in Transilvania, nei Balcani. Per molte di queste regioni si hanno prove archeologiche dello sfruttamento avvenuto nell’età del Bronzo o del Ferro, ad es. per le miniere di calcopirite di Cabrières presso Montpellier, di Mount Gabriel in Irlanda, delle Colline Metallifere in Toscana.
Importanti erano sicuramente i giacimenti di rame dell’Erzgebirge in Sassonia, ma le miniere dell’età del Bronzo meglio conosciute sono quelle delle Alpi Orientali.
Nella zona di Mühlbach Bischofshofen l’ampia documentazione archeologica della miniera del Mitterberg ha permesso di ricostruire le tecniche estrattive, i processi del trattamento del minerale per ridurre il rame e perfino di effettuare stime sulla quantità di rame prodotto in un anno (ca. 20 tonnellate), il numero dei lavoratori impiegati (180) e le dimensioni del disboscamento operato per alimentare le fornaci (8 ettari all’anno).
Al Mitterberg le gallerie venivano scavate in lieve pendenza fino a raggiungere una lunghezza massima di 160 m.
Per sfruttare le vene di pirite di rame si utilizzava il metodo del fuoco, che facilitava la disgregazione della roccia. Per favorire la ventilazione e la fuoriuscita del fumo, oltre che per raccogliere l’acqua sul fondo, venivano scavate, partendo da un primo pozzo, due gallerie che si congiungevano verso il fondo e la galleria inferiore veniva provvista di un’armatura di legno.
Numerose località con concentrazioni di scorie di separazione di materiale e resti di fornaci per la riduzione del metallo sono note nel Trentino e nell’Alto Adige, ad es. sull’altopiano del Lavarone e di Luserna, al passo Redebus, a Kurtatsch. Quasi certamente da qui proveniva il rame utilizzato dagli abitati palafitticoli del Garda e da quelli terramaricoli della pianura Padana.

L'industria litica nell'Età del Bronzo

La diffusione della metallurgia inizialmente non ha esercitato un'influenza determinante sulla fabbricazione delle armi e degli strumenti da lavoro, di conseguenza l'industria litica non ha subito un arresto o un rapido declino, ma ha continuato a svilupparsi e a mantenere la sua importanza anche dopo la scoperta della metallurgia. La pietra rimarrà a lungo una materia prima indispensabile per molti manufatti, per alcuni dei quali, come le cuspidi di freccia, soltanto alla fine dell'età del Bronzo verrà sostituita dal metallo.
Durante l'età del Bronzo si fabbricavano in selce soprattutto cuspidi di freccia ed elementi di falcetto, lame di pugnale, raschiatoi di forma quadrangolare, grattatoi e tranchets.
Nei complessi archeologici in cui hanno grandi quantità di selce sicuramente dell'età del Bronzo, come Ledro, Fiavè, Lucone di Polpenazze, Isolone del Mincio emerge con chiarezza che la lavorazione della selce avveniva in maniera preponderante mediante il ritocco piatto. La maggior parte degli strumenti appartiene quindi alla famiglia dei foliati, cui seguono per importanza i grattatoi, i raschiatoi su lama e su scheggia, mentre molto rari sono gli strumenti a ritocco erto e bulini.
Tra i foliati il primo posto è occupato dagli elementi di falcetto e le punte di freccia. I primi erano montati in serie su supporti in legno e sul taglio di queste lame spesso è possibile osservare la patina lucente prodotta dallo sfregamento contro le microscopiche particelle silicee, i fitoliti, contenute nello stelo dei cereali. La presenza di questa patina straslucida indica quindi l'uso effettivo del reperto per la mietitura e nello stesso tempo la grande abbondanza di falcetti in tutti gli insediamenti dell'area palafitticola benacense e terramaricola è un segno rivelatore dell'importanza dell'agricoltura per l'economia dell'età del Bronzo.
Prove sperimentali effettuate con lame di selce in Palestina hanno dimostrato che occorrono circa 10.000 colpi prima che si produca una patina sufficentemente intensa, ma ciò dipende anche dalla qualità della selce utilizzata.
L'altro strumento onnipresente negli insediamenti dell'età del Bronzo sono le cuspidi di freccia. La loro abbondanza dimostra che l'arco rimane anche nell'età del Bronzo l'arma più importante, utilizzata sia per la caccia che per la guerra.
Negli insediamenti palafitticoli svizzeri italiani sono stati scoperti archi di tipo semplice, a curvatura unica, lunghi in genere dai 100 ai 180 cm., quasi sempre in legno di tasso, il più indicato per la sua grande elasticità.
La causa della lunga persistenza della punta di freccia in selce è certamente dovuta al fatto che la tecnica di fabbricazione era così rapida ed efficiente e nello stesso tempo fine e specializzata che all'inizio della metallurgia era difficile e troppo costoso imitarla in metallo.
Soltanto verso il Bronzo Recente (XIII sec. a.C.) compaiono le prime cuspidi di freccia di bronzo, con fogge che imitano i modelli di selce.
Nella preistoria si incontrano centinaia e centinaia di tipi di punte di freccia di selce, che possono variare per la forma della base (convessa, rettilinea, concava, oppure con peduncolo con o senza alette laterali), per la forma della punta (triangolare, foliacea o a losanga, e inoltre corta, corta e larga, oppure lunga e stretta), per l'andamento del margine tagliente (rettilineo, convesso o concavo), per il tipo di taglio (continuo, seghettato, denticolato).
Le cuspidi di freccia dell'età del Bronzo hanno in genere un peso variante tra 0,6 e 1,8 grammi.
Dalle palafitte svizzere e italiane provengono alcune frecce più o meno complete , ma soltanto il recente ritrovamento dell'uomo del Similaun, al confine tra Italia e Austria, ci ha fatto conoscere una freccia preistorica in perfetto stato di conservazione. Al Similaun 14 frecce erano contenute in una faretra, formata da pelli cucite con striscioline di cuoio e rinforzata su un lato da un'asticciola di nocciolo.
 
Le frecce, in legno di Víburnum lantana particolarmente adatto perché leggero e già naturalmente diritto, sono lunghe 70 cm. Due frecce erano pronte per l'uso, con la cuspide di selce innestata e l'impennatura costituita da tre serie di penne d'uccello disposte leggermente a spirale e fissate con resina di betulla e un sottile filo tendine animale.  Le frecce dei Similaun risalgono al 3200-3000 a.C., ma quelle dell'età dei Bronzo non dovevano esser diverse.
La selce utilizzata dalle genti dell'età del Bronzo della regione benacense e della pianura padana proviene in genere da Lessini, a nord di Verona, o dall'area del monte Baldo, ove si rinviene nella cd. formazione dei Biancone, al limite tra il Giurassico e il Cretacico.  E' una selce di buona qualità, traslucida, leggermente maculata, con una varietà di colori da rossastro al giallo opaco, dal camoscio a bruno, dal grigio verdastro al nero. I Lessini in particolare, in cui sono stati scoperti resti di lavori estrattivi della selce risalenti all'età del Bronzo, erano il punto di partenza di una importante rete di scambi a lungo raggio che interessava tutta la regione padana per il rifornimento di materia prima o anche di prodotti già lavorati, come ad es. gli elementi di falcetto.
Un manufatto litico frequentemente rinvenuto nei siti della antica età del Bronzo dell’area benacense sono le placchette rettangolari di pietra levigata, relativamente sottili, lavorate con cura e munite di fori ai quattro angoli o soltanto di un foro a ciascuna estremità nelle forme strette. Secondo l’interpretazione più comunemente ammessa, erano legate al polso a protezione del violento rimbalzo della corda dell’arco. Sono assenti dagli insediamenti del Bronzo Medio e Recente, ma dispositivi analoghi potevano essere fabbricati in legno o cuoio.

L'età del Bronzo in Italia Settentrionale 3

LE PALAFITTE II
I modellini di palafitte qui esposti (scala 1 :25) sono stati realizzati sulla base dei dati emersi dagli scavi di Fiavé, il sito che ha fornito la documentazione più completa finora disponibile su un insediamento palafitticolo nell'Italia settentrionale. 
A Fiavé sono venuti alla luce due villaggi, uno risalente al Bronzo Medio avanzato (Zona 1) e uno al Bronzo Antico e Medio (Zona 2). 
Il modellino A esemplifica le strutture dell'abitato del Bronzo Antico e Medio situato a circa m. 1 00 dall'antica sponda meridionale del laghetto.  Il campo di pali era delimitato verso nord da un allineamento che probabilmente costituiva il perimetro del villaggio. 
L'analisi dei pali conservati ha permesso di individuare diversi tipi di lavorazione e diverse essenze impiegate nella costruzione della palafitta, quali l'abete rosso e varie specie di larice, le due essenze che costituivano la quasi totalità dei bosco circostante il villaggio. 
I pali sono per lo più di sezione circolare, risultato della sramatura dei tronchi, anche se non mancano pali a sezione quadrangolare, poligonale, semicircolare, o a settore di cerchio. 
Sembra che la maggior parte dei pali dovesse avere funzione di costipazione e non di strutture portanti dell'abitato.  Ma è difficile individuare i pali che erano in diretta relazione con la struttura delle abitazioni e ricostruire la planimetria del villaggio.  Dal momento che i pali erano lavorati soprattutto sulla sommità, la parte che ha subito il massimo di deterioramento e che ha perso la forma originaria, le tracce di lavorazione conservate sono poche.  Dove queste sopravvivono, le sommità dei pali presentano insellature.  Se l' insellatura è tanto profonda da formare una forcella, i due rami di questa sono attraversati da uno o due fori passanti a sezione quadrangolare. 
La stratificazione di Fiavé, Zona 2, presenta tre unità fondamentali. 
a) Sotto un leggero strato di humus si alternano, per uno spessore di m. 1,80, strati di torba e strati di limo grigiastro che si sono sedimentati dopo l'abbandono dell'abitato.  E' da questa serie stratigrafica che emergono le testate dei pali meglio conservate. 
b) Segue uno strato antropizzato, il cui spessore varia da m. 1,80 a m. 2,5 che si è formato durante 
i due secoli di vita dell'abitato e contiene i materiali culturali - ceramica, legno, corno, osso e i resti paleobotanici. 
c) Al di sotto inizia la creta lacustre all'interno della quale sono infissi i pali per una profondità di m. 5. Gli strati antropizzati hanno un aspetto cumuliforme, come se si fossero formati per caduta gravitazionale dei materiali. 
Poiché non si sono trovati piani pavimentali e molte delle ceramiche recuperate sono integre, si ritiene che le abitazioni poggiassero su un impalcato aereo soprastante lo specchio d'acqua. 
Sulla forma e la disposizione delle capanne non sappiano nulla.  La ricostruzione che presentiamo è del tutto ipotetica.  L'unico dato certo è che si trattava di case su pali con impalcato aereo, costruito a breve distanza dalla linea di riva dell'antico laghetto o comunque su una fascia spondale che durante le piene rimaneva allagata.  Quando dopo il, primo periodo dei Bronzo Medio l'abitato della Zona 2 fu abbandonato, forse a causa dell'innalzamento dei livello dei laghetto, ne venne costruito uno nuovo più a nord-ovest in un punto dove affiora un isolotto di forma ovale.  Per il nuovo villaggio si adottarono soluzioni tecniche più avanzate che garantivano la stabilità delle fondazioni e comportavano un risparmio di materia prima e di lavoro. 
Le case della parte centrale dell'isolotto poggiavano direttamente sul suolo, mentre quelle costruite sulla riva periodicamente allagata erano case su pali. 
Il modellino B ricostruisce queste due situazioni insediative.  Sulla fascia spondale i pali verticali sono infissi nel fondo per soli due metri e sono resi stabili da un complesso sistema di plinti fra loro collegati a formare un reticolo.  Anche della struttura delle case di questo villaggio più recente poco o nulla è rimasto.  E' certo tuttavia che la forma e le dimensioni delle singole abitazioni non erano costanti e la loro pianta doveva essere rettangolare o leggermente trapezoidale.  Per quanto riguarda le pareti, con ogni probabilità erano costruite a graticcio intonacato d'argilla.