giovedì 1 dicembre 2011

La Civiltà Etrusca

L’ uomo non muore del tutto se lascia dietro di sé alcune tracce della sua esistenza. Talvolta lo scorrere del tempo ha avuto effetti inesorabili sulle memorie di alcuni popoli,la cui sfortunata sorte è stata quella di veder seppellire i resti della propria cultura nel momento in cui il loro linguaggio cadde in disuso. Un destino così infausto non ha toccato né la cultura greca,né tantomeno quella latina ma è stata comune alle primitive popolazioni italiche. Inglobatisi nella cultura di chi li vinse e li dominò,dei loro idiomi non ci rimangono che pochissimi resti,a volte frammentari,altre volte incompleti,che non hanno permesso una soddisfacente conoscenza delle loro favelle. Poter ricostruire con assoluta certezza e integralmente i caratteri di una lingua non è stato possibile per molti dei linguaggi primitivi della penisola come la volsca,l’osca,la sannitica,l’euganea,l’umbra e,parzialmente,l’etrusca. Tra queste insufficienti reliquie,quelle riguardanti la civiltà etrusca sono sicuramente quelle più prestigiose anche in virtù della fortuna che ebbe questo popolo prima del sopravvento di Roma.
LE QUATTRO EPOCHE DEI PRIMITIVI LINGUAGGI  ITALICI

Per quanto riguarda i linguaggi primitivi della nostra penisola,è possibile distinguere quattro diverse epoche.
La prima epoca comprese quel “tempo incognito” in cui venne a crearsi una sorta di arcaica “multiculturalità”,nonostante ogni idioma conservasse le proprie particolarità.
La seconda epoca si divise tra elementi che si intrecciarono con il vasto campo  della mitologia ed elementi veritieri ed accertati come,ad esempio,l’arrivo di diverse colonie greche in Italia,prima e dopo la guerra di Troia.
La terza epoca è quella storicamente più lunga,la quale annoverò un ampio margine di tempo ,durante cui ogni nazione si stanziò stabilmente nelle proprie sedi,ebbe le sue leggi,i suoi confini,il suo nome e,naturalmente il suo linguaggio.
La quarta,è quella che comprese il declino di questi idiomi,i quali scomparvero con la confluenza nella lingua di coloro che li dominò. Chiaramente il processo di integrazione linguistica non fu istantaneo,ci volle del tempo affinché tutti i membri delle popolazioni assoggettate iniziarono ad usare il latino. Tra le favelle italiche quella che resistette più a lungo alla diffusione della cultura romana fu senza dubbio l’etrusca.
Il monumento più importante per la ricostruzione degli antichi dialetti italici è costituito dalle sette tavole bronzee,ritrovate nel 1444 a Gubbio (Eugubium),conosciute col nome di Tavole Eugubine. Al momento del loro rinvenimento si cedettero redatte in lingua egizia. Spanemio,convenne che i caratteri delle tavole fossero greche primitive o cadmee,mentre Reinesio le ritenne puniche. La fondamentale importanza del documento linguistico,scatenò reazioni di vivo interesse da parte degli studiosi ed il desiderio di darle una corretta interpretazione. Tale fenomeno provocò una grande eco  sin dalla pubblicazione delle tavole nell’Etruria Regalis dello scozzese Thomas Dempster. Dalle Tavole Eugubine,inoltre,si evince che tra le varie favelle d’Italia non corresse grande differenza. In realtà la teoria del Bourguet si basava sulla traduzione della tavola che inizia con ESTE PERSCLO con un licenzioso grecismo.In generale, l’argomento delle Tavole è abbastanza chiaro : pare che contenessero nomi di vittime e di offerte sacre,indicando così i loro riti sacri. La posizione del Bourguet,si basava sulla testimonianza fornitaci da Dionigi d’Alicarnasso. Stando al grecista dunque,esse contenevano un flebile canto misto di preghiere agli Dei per scongiurare le calamità. In realtà egli sostenne che nel Cortonese,non lontano da Gubbio,vi abitarono un tempo i Pelasghi i quali avevano sofferto fame ,pestilenze e disgrazie in quel luogo. Per questo lo studioso le denominò “litanie pelasghe”. Il Lami,tentando di ricavare il senso delle Tavole,si servì del Lazio per ricavare le derivazione,trovandovi anch’egli delle lamentazioni e delle suppliche.

OSSERVAZIONI FILOLOGICHE SULLA LINGUA ETRUSCA
Sulla derivazione della lingua etrusca,gli studiosi si sono divisi in più scuole di pensiero.
La prima,vorrebbe per l’etrusco una derivazione greco-latina. I più autorevoli sostenitori di questa teoria furono il Lami ed il Lanzi i quali crearono un vero e proprio sistema di indagine,atto  a spiegare il fenomeno linguistico basandosi sull’esplorazione del territorio circostante,partendo dal presupposto che l’area di diffusione era quello dell’Italia centrale. Tuttavia questa teoria,contrastava con quanto ci riferisce una delle più autorevoli fonti in proposito,ossia con l’affermazione di Dionigi d’Alicarnasso,secondo cui gli Etruschi non erano somiglianti a nessun altro popolo,né in costumi,né in lingua. Secondo il Lanzi, l’etrusco sarebbe una lingua a parte ma questo non escluderebbe che in essa siano confluiti elementi greci e latini. L’equivoco si sarebbe sviluppato da una lettera ovvia come la M creduta equivalere alla M dei Latini,quando il suo valore in realtà potrebbe corrispondere o al sigma greco o ad una mera aspirazione.
Il Lanzi,nel suo “Saggio di lingua etrusca”,si occupò estesamente dell’alfabeto degli Etruschi,inserendolo in un trattato storico e grammatico. Egli partì dal distanziarsi da quanto asserito precedentemente da un altro studioso,Monsignor Guarnacci,il quale aveva affermato che gli Etruschi ereditarono l’alfabeto dalle popolazioni orientali e successivamente lo esportarono in Grecia grazie ai Pelasghi Tirreni. Secondo Lanzi,questa visione,sarebbe fallace da un punto di vista storico,in quanto basata sull’assunzione di caratteri anteriori a Cadmo in Grecia. Se la teoria del Guarnacci ha potuto diffondersi,sarebbe stato solo grazie ad un clima di discordie intellettuali che si è protraeva sin dai tempi più antichi. Il Lanzi argomenta inoltre che,seppur si volesse ammettere l’introduzione dei caratteri in un tempo precedente a quello cadmeo,resterebbe da provare che la loro introduzione sia stata opera dei Pelasghi. Nel dibattito antico,nessuno degli eruditi aveva preso in considerazione né l’esistenza dell’Etruria,né tantomeno di Pelasghi Tirreni. In realtà con il termine  Pelasghi,si indica il genere e con Pelasghi Tirrenici la specie ma nessuna delle due denominazioni trova riscontro nella storia delle lettere. Storicamente ,si conoscevano varie popolazioni pelasgiche e quelle definite “tirrene” ,comprendevano quei coloni che lasciata la Grecia,vennero a stabilirsi in Italia per poi ritornare nella madre patria al tempo delle guerre troiane. La più antica erudizione sulla storia delle lettere non accenna a questi popoli. Sappiamo che fu Lino a trasformare le lettere fenicie in greche,attribuendo  forma e nome a ciascuna. Di sicuro i Pelasghi fruirono di questa innovazione,probabilmente prima di altri,stando a quanto riferitoci da Diodoro. Tra le fonti antiche maggiormente attendibili,c’è quella di Erodoto,il quale ci riferisce di un’alterazione dell’alfabeto cadmeo. La definizione di “alfabeto pelasgico” potrebbe semmai ammettersi considerando che fu usato dagli Ioni che abitavano nei pressi di Tebe,il quale fu comune anche agli Eoli. La trasformazione dei caratteri greci sul modello di quelli orientali e ,specialmente del fenicio e del samaritano,è particolarmente interessante anche per rafforzare le analogie con l’etrusco,in quanto sia gli idiomi orientali che questa favella italica,erano scritti da destra a sinistra. Tuttavia,questa non costituirebbe una prova inconfutabile,in quanto sappiamo che anche i primi Greci si avvalsero di questo tipo di grafia. Una similitudine tra l’etrusco e i linguaggi orientali ,soprattutto l’ebraico,sarebbe possibile considerando l’uso etrusco  di scrivere le consonanti senza l’accompagnamento delle vocali,lasciando al lettore il compito di supplire le ausiliari. Del resto,questo impiego fu comune anche ai primi latini. In un secondo tempo, monsignor Guarnacci mise a confronto l’alfabeto greco con le lettere etrusche,rendendosi conto che erano i caratteri etruschi ad essere derivati dai greci e non viceversa. Nella ricostruzione del Lanzi a questo punto,si rese necessario una volta stabilita l’origine dei caratteri etruschi,risalire a quale colonia li avesse condotti. L’erudito,chiama in causa Tacito,il solo fra gli autori classici a permetterci di congetturare una datazione dell’alfabeto etrusco///. Il Lanzi argomenta che se ai tempi di Tacito un popolo riuscì a catturare l’attenzione degli studiosi,doveva essersi trattato di un popolo altamente interessante da un punto di vista culturale. Tacito,con le sue indagini storiche,si occupò anche della vicenda etrusca,sviluppando principalmente due punti :l’origine della loro nazione e l’origine del loro alfabeto. Ma l’attenzione sugli Etruschi non fu solo appannaggio di storici ed intellettuali. Anche l’imperatore Claudio Augusto ne fu fortemente affascinato,tanto da trascrivere in greco i loro annali.
 Tuttavia,quello che al Lanzi parve chiaro nel ricostruire l’alfabeto etrusco,era l’inutilità di cercare paragoni tra l’etrusco e lingue arcaiche e lontane,come ad esempio il samaritano,in quanto gli Etruschi pronunciavano poche lettere,supplendo quelle che mancavano con le loro affini. Secondo lo studioso,si tratterebbe di un alfabeto limitato,che solo successivamente si ampliò ammettendo nuovi caratteri,ad esempio le consonanti doppie,senza apportare modifiche alla pronuncia. Nell’indagine lanziana,una particolare attenzione è spesa verso la paleografia etrusca,evidenziandone i nessi evidenti e quelli che lo sono meno,assumendo piuttosto l’aspetto di segni di una parola già terminata. Inoltre,tra i loro modi di scrivere,non vi fu solo quello all’orientale da destra a sinistra ma si attestano anche esempi in cui fu utilizzato il metodo alla latina da sinistra a destra. Questo secondo uso,si palesa in epigrafi bilingui. Queste iscrizioni semibarbare secondo il Lanzi,comproverebbero che la sopraffazione romana sugli Etruschi se da un lato stimolò l’apprendimento della lingua latina da parte degli abitanti,rivelò un tardivo abbandono dei caratteri nazionali. Il Saggio lanziano,offre inoltre degli spunti d’indagine sull’ortografia etrusca. Mettendo assieme le varie testimonianze,lo studioso,riuscì a stabilire che l’idioma etrusco fu originariamente aspro e  difficile. Tuttavia,trattandosi di voci che hanno qualche analogia col greco e col latino,si proferirebbero con facilità. D’altronde sappiamo essere l’ortografia una delle facoltà più tarde a nascere fra i popoli colti. Nell’analisi dei caratteri etruschi,il Lanzi vi ravvide un’ortografia sostanzialmente regolare,fenomeno abbastanza inconsueto per quei tempi,considerando che anche il prisco latino ebbe per certi versi,caratteri denotanti incostanza.
In virtù dell’analogia notata dall’erudito tra l’etrusco ed i due idiomi greco e latino,potè asserire essere l’antica favella toscana,scarsa di dittonghi,portata ad una divisione vocalica alla maniera degli Eoli. Inoltre fu etrusco,l’accorpare consonanti,mutare le vocali e sopprimere le finali di voci. Si trattava di un dialetto abbondante di aspirazioni e ridondante di alcune vocali. Ebbero un interessante sistema di figure,similare per certi versi a quello del latino antico. Tra le figure maggiormente utilizzate il Lanzi notò la “protesi” o aggiunta di iniziale,l’”epentesi”,la “paragoge”,l’”aferesi”,la “sincope”,l’”apocope” e la “metatesi”. Inoltre nelle iscrizioni etrusche,lo studioso notò la presenza di punti. Talvolta ve n’erano due,talora uno solo,i quali si trovavano tra le due parole o tra le due parti di una parola. Non mancarono esempi in cui furono notati tre punti,forse per marcare in maniera più incisiva i diversi sentimenti. Lo studioso notò,inoltre,che nelle iscrizioni meno corrette così come accadeva per le lettere,anche per i punti si poteva riscontrare una loro mancanza,ridondanza o un posizionamento scorretto. La trattazione del Lanzi,fa seguire all’indagine sull’ortografica quella etimologica. Egli mette a punto un metodo attraverso cui molte voce paleserebbero un’origine greca o immediata o mediata dal latino. Porta come esempio i nomi di alcune famiglie etrusche quali la Vinia,la Nonia,la Novia eccetera,riguardandole come propagazioni dei vocaboli latini Vinum, Nonus,Novus. Attraverso questo metodo,era possibile vedere come non pochi ellenismi rifiutati dal latino,trovino raffronto nelle altre lingue d’Italia. Il Lanzi argomenta inoltre,che nel passaggio di una voce da un idioma all’altro non si debba badare tanto alle vocali quanti alle consonanti .Lo studioso indaga il riscontrarsi di quest’ultime con lo stesso ordine o le possibili variazioni. Naturalmente questo metodo,si confà maggiormente all’etimologie più remote,in quanto lo scopo è di mettere in evidenza il primo e più noto tema e di confrontarlo col nuovo,il suo derivato,dando ragione dei mutamenti subiti nel passaggio.
Gli esponenti della scuola greco latina,dovettero fare i conti con le vetuste credenze dei letterati che non consideravano il latino e il greco come lingue primigenie ma le sospettavano discese dal pelasgo,nonostante di questo idioma non si avesse una completa cognizione. Infatti,per gli eruditi che videro nell’etrusco elementi di greco e di latino,la questione fondamentale rimaneva il riuscire a superare quel limite che non permetteva un confronto esaustivo tra gli idiomi e che il più delle volte,dava vita a delle analogie che rasentavano l’imprecisione. Sostanzialmente,per coloro i quali videro una possibile soluzione nell’aderenza al sistema greco o latino,il campo d’indagine limitato,conduceva le ricerche in una sorta di vicolo cieco. Una decisiva svolta a questa scuola venne qualora gli eruditi presero in considerazione l’elemento linguistico proveniente dal sanscrito. Fautori del nuovo metodo furono principalmente  Bopp e i due fratelli Schlegel,dando vita ad una scienza nuova, la “filologia comparata”. Attraverso questo nuova apertura,era possibile ampliare il campo di ricerca delle analogie non solo al greco e al latino ma anche ad idiomi più antichi come il sanscrito. Sostanzialmente,gli intellettuali vicini a questa scuola di pensiero,a questo punto si divisero schieramenti :quelli che sostennero l’antico metodo e quelli che si avvicinarono alla nuova apertura d’indagine. A questo punto,per differenziarsi maggiormente dal primo filone,gli aderenti al nuovo ramo,chiamarono la loro scuola indo-italo-greca. Come abbiamo in precedenza ricordato,grande apporto alla scuola greco latina fu dato dall’abate Lanzi,il quale può essere a buon diritto reputato il creatore di questo sistema. Nonostante i pareri degli eruditi possano discordare con la ricostruzione della lingua etrusca effettuata dallo studioso,non gli si può negare il merito di aver dato a tale trattazione una sistematicità ed un ordine tale che,per quanto visionarie possano essere per alcune,le sue teorie sono servite a sbrogliare l’intricata matassa di un idioma così complesso a causa della scarsità di elementi. Altro esponente eccellente della scuola greco latina fu F.Orioli ,autore di un interessante lavoro sulle iscrizioni sepolcrali etrusche e sui tentativi che si possono fare per spiegarle.  Nome altisonante dell’altro ramo di questa scuola ossia quello indo-italo-greco,è A.Fabretti. Il suo Glossarium Italicum costituisce uno dei più preziosi documenti comprendenti i diversi risultati delle indagini filologiche nel settore,ottenuti da studiosi sia italiani che stranieri. Possiamo considerare il lavoro di Fabretti una sorta di “vademecum” per coloro i quali si accingevano ad investigare sulle antiche favelle italiche. In realtà,considerati i numerosi autorevoli pareri che si erano avvicendati sull’argomento,la redazione di un vademecum sottoforma di Glossiario,era più una necessità che una scelta casuale. Lo stesso autore con la sua opera,riesce coerentemente a mantenere saldo lo scopo che si era preposto,ossia quello di palesare i ricongiungimenti linguistici tra le prische lingue italiche ,il latino e il parlare moderno,tutte riconducibili alla grande famiglia indo pelasgica. Tuttavia,l’impegno mostrato dal Fabretti nella sua opera non fu sufficiente a redimerlo da contraddittorietà,in quanto l’autore non considerò i sostenitori del sistema semitico,né quelli che optarono per una derivazione celtica. Una giustificazione di tale omissione potrebbe essere costituita dal fatto che il compilatore,dovendo tener conto dei vari e discordanti pareri in questione,tentò di operare una selezione delle trattazioni,al fine di ottenere un maggior numero di “dati positivi”. Questo naturalmente si tradusse nell’accettazione di un’ulteriore analogia col sanscrito . Alcuni autori si sono spinti a paragonare l’odierna situazione linguistica all’antica,argomentando che lo stato linguistico attuale altro non è che una riproduzione o continuazione di quello antico,ragion per cui,l’etrusco,l’osco,il volsco  ,l’umbro,il sabino,ecc.altro non sarebbero che “dialetti” di un’unica lingua. Una variazione di pensiero all’interno di questa scuola è costituita dalla fantasiosa tesi del Micali,secondo cui il primitivo linguaggio italico si divideva in due principali idiomi : l’osco e l’etrusco. Parimenti fantasiosa,sebbene più veritiera è l’opinione del Galvani,che vedrebbe anticamente nella Penisola,un unico linguaggio,equivalente all’idioma osco-umbro,al quale non era estraneo nemmeno il dialetto dei Ligurie dove l’unica eccezione era costituita dal dialetto euganeo-veneto,che sarebbe stato differente. Il Micali argomenterebbe la sua teoria,attribuendo la causa di questa divisione linguistica,alla venuta di nuove genti in Italia,le quali avrebbero dato vita a nuove lingue : l’Eolico-Dorica (o greco- arcaica) nel sud della Penisola e la Tosca nell’Italia centrale. Successivamente la ripartizione degli idiomi si sarebbe scissa in quattro diversi dialetti :l’osco-umbro,il veneto,l’etrusco ed il greco. Analoga alla visione del Micali, si insinua l’opinione di Lepsus,secondo cui anticamente in Italia esistevano due differenti linguaggi :uno “settentrionale”,comprendente l’area geografica che si estendeva dal Po al Tevere,occupata dagli Umbri ( prima degli Etruschi) ed uno “meridionale” dal Tevere sino allo stretto,dove,ad eccezione delle colonie greche,si parlava osco. Il settore linguistico intermedio sarebbe stato occupato dal dialetto sabino,simile all’antico latino.
Un altro gruppo di studiosi degli antichi parlari italiani,diede vita alla cosiddetta scuola “semitica”,pretendendo l’Etrusco appartenente al ceppo semitico e ,dunque,alla stessa famiglia di Fenicio,Ebraico,Etiopico ed Arameo. Nel 1546 ,F.Giambullari,nei suoi studi sull’origine della lingua italiana,trovò esser questa derivata dall’etrusco,idioma che avrebbe visto affine all’ebraico e al caldeo e derivato dall’arameo. Vicino a questa teoria fu anche il Foscolo, convinto del fatto che,in tempi antichissimi,la Toscana fu abitata da colonie di avventurieri provenienti dall’Egitto e dall’Arabia,adducendo come dimostrazione della sua ipotesi,la forte aspirazione peculiare dei Toscani,la “gorgia”,sconosciuta a tutti gli altri dialetti italiani ma molto vicina alla pronunzia degli Arabi e a tutte le lingue che dall’arabo si propagarono.  In realtà,l’opinione del Giambullari circa la derivazione dell’etrusco dalla lingua arameo,non teneva in considerazione eventuali fasi intermedie dell’idioma etrusco,azzardando addirittura paragoni grammaticali tra l’aramaico ed il toscano moderno,portando ad esempio numerose voci che a suo parere ne proverebbero inconfutabilmente la parentela. Tuttavia il ramo degli studiosi che considerò l’etrusco idioma di derivazione semitica,non si restrinse a paragonarla solo cono le lingue succitate. Molti eruditi videro una vicinanza linguistica fra l’antico toscano ,l’ebraico e il fenicio. A tal proposito è interessante l’opinione del Mazzocchi,per il quale sarebbe indubbia l’origine orientale dei primi abitatori della Penisola,argomentando che in almeno dieci vocaboli etruschi (ADHARNAHAM,AHALA,ARNON,ARRETIUM,CAMARS,FARFAR,MASTARNA,RASENA,SETHLANS,THANA),esisterebbe una forte similitudine con altrettanti ebraici. Per l’erudito ,altra prova dell’orientalismo delle primitive favelle italiane,sarebbero alcune loro terminazioni,il raddoppiamento di certe lettere o l’omissione di alcune vocali. Parimenti si espresse il Maffei,reputando gli Etruschi provenienti dalle terre di Canaan e,nello specifico,in quell’area geografica irrigata dall’Arnon. A comprovare quest’opinione,secondo lo studioso vi sarebbe da un lato la conformità degli istituti etruschi con quelli cananei e dall’altro le vestigia ebraiche presenti nel dialetto etrusco.  Egli porta come esempio il nome della città di Camars- che i Romani rinominarono Clusium-,paragonando la voce al vocabolo ebraico Camas,”nascondiglio”. Altra somiglianza fu da lui ravvisata nel termine etrusco Esar (“Dio”),accostato all’ebraico Sar,traducibile come “Signore”,vedendo in quella “e” premessa nel termine etrusco,una sorta di articolo affisso,analogamente a quanto si verificava nelle parole derivate dall’arabo. Una particolare osservazione,va però spesa sul fiume Arnon,che irrigava la regione Cananea da cui provennero Abramo e Loth,che palesa un’affinità col nome del maggior fiume della Toscana. Oltre alle teorie del Maffei,un altro esponente di spicco della scuola semitica fu C.Jannelli,il quale si cimentò in un’ardita spiegazione dell’etrusco,dell’osco,dell’umbro e del volsco attraverso il “lessico radicale semitico”. Contravvenendo alla manifesta derivazione greco latina di alcuni termini dei dialetti italici,egli le reputò prettamente semitiche. Secondo Jannelli,i termini che sembrano facilmente rapportarsi al greco e al latino,sarebbero state così tradotte in quanto i loro interpreti non avrebbero cognizione dei fondamenti della glossosofia. Il metodo di Jannelli consisteva,sostanzialmente,nel dimostrare che i vocaboli etruschi di cui conosciamo con certezza il significato,avrebbero un senso conforme a quello che le corrispondenti radici hanno nelle lingue semitiche. Tuttavia,l’apporto scientifico e il valore degli studi di Jannelli furono ignorati. Un parere un po’ troppo radicale fu quello emerso dalle indagini dello Stickel. Egli reinterpretando alcune importanti iscrizioni etrusche ,pretese avessero senso solo se tradotte alla luce di un’affinità tra l’antico toscano e le lingue semitiche. La ritrosia dell’erudito ad ammettere possibili altre soluzioni interpretative,lo costrinse ad essere un integralista del sistema semitico.
Opposti alla scuola semitica,furono gli studiosi che videro nell’etrusco una derivazione celtico o celto-germanica. Probabilmente questa può essere considerata un ramo di quella indo-italo-greca,specialmente in virtù del fatto che i dialetti celtici e germanici sono annoverabili nel ceppo indoeuropeo.  Anche in questo filone,gli studiosi si divisero in diverse fazioni. Tra di loro vi fu addirittura chi ripudiò totalmente nel vedere il benché minimo vestigio di greco o latino negli idiomi italici. Uno dei principali sostenitori della scuola celtica fu S.Bardetti,secondo cui sia l’Italia centrale che settentrionale sarebbe stata originariamente abitata da genti di stirpe celto-germanica,la cui lingua avrebbe conservato resti nell’Armorico,nel Wallico e nei più vetusti monumenti Gotici,Anglosassoni,Franchi ed Alamanni. Altro eminente esponente di questa scuola di pensiero fu Bruce-Whyte,la cui ipotesi prevedeva che in un tempo anteriore ad ogni ricordo umano,vari dialetti,riconducibili da un’unica lingua madre,furono parlati nel sud-ovest dell’Europa,dalla cui miscela ebbe poi origine il Gaelico o Celtico,nonché le antiche favelle italiane,spagnole e quelle della Gran Bretagna. Altro nome di spicco annoverabile fra le eccelse menti di questa scuola,fu il Galvani. Tuttavia,il maggior propugnatore della teoria di derivazione celtica dell’etrusco fu G.Betham. La radicale innovazione di questo studioso,consisteva nel riguardare all’etrusco come ad un linguaggio “monosillabico”,al pari del ceppo iberno-celtico. Secondo questo sistema,si era di fronte ad una lingua integralmente composta di radici,dove ogni sillaba corrispondeva ad una parola di senso compiuto. Il vantaggio di questa metodologia  interpretativa,consisterebbe nell’agevole riduzione di ogni singola voce ai suoi elementi. Il fascino e l’importanza delle Tavole Eugubine,divennero ben presto terreno di ricerca anche per lo stesso Betham,il quale vi ravvisò un significato del tutto nuovo. Secondo l’erudito irlandese,esse trattavano della scoperta dell’Irlanda,attribuita all’influenza di Minerva,ritenuta dea del Mare,della Luna ,delle imprese marittime e della sapienza. Betham sostiene che dopo un iniziale stanziamento in Irlanda,per altro ricordato nelle Tavole Eugubine,tra l’Etruria e le Isole Britanniche,si sarebbe mantenuto un rapporto commerciale costante nel tempo. Tra le iscrizioni funebri presenti nelle Tavole Eugubine,l’opinione di Betham si mostra antitetica a quella sostenuta dai seguaci del metodo greco latino. Questi,infatti,pretendevano di ravvisarvi nomi propri di persona e di famiglie,mentre secondo il Betham,altro non vi sarebbero che aforismi o riflessioni morali sulla tomba e sulla morte. Una particolare attenzione all’interno delle indagini del Betham,meritano i nomi delle divinità etrusche e quelle dei luoghi geografici d’Italia,entrambi riducibili ad elementi celtici.
L’altro settore di questa scuola,è quello costituito dai celto-germanisti,anche detti Reto-etruscisti. Gli eruditi annoverabili in questo filone,sostenevano che l’area geografica abitata dai Reti (il quadrilatero alle cui punte estreme erano le città di Como,Coira,Bolzano e Verona)sia stata in qualche modo in relazione di costumi e forse anche di stirpe e di lingua,con la zona abitata dagli Etruschi. Ciò sarebbe reso evidente dai monumenti in caratteri etruschi rinvenuti in Trentino,in Svizzera e nel bresciano. La scuola Reto-etruscista,tuttavia,presenta non pochi punti oscuri nello sviluppo delle sue teorie. Rimane infatti poco chiaro se siano stati gli Etruschi a derivare dai Reti o viceversa ma,soprattutto,è ostico il comprendere come si sia potuto confondere un popolo di montanari con uno già ampiamente incivilito ed abile nella navigazione.
Ultima e non meno importante tra le scuole di pensatori che hanno dato un contributo interpretativo agli antichi idiomi italici,può considerarsi quella detta “prettamente italica”. I suoi sostenitori,si dimostrarono avversi a ricorrere all’ausilio di lingue straniere per spiegare le derivazioni degli antichi idiomi italici,vedendo la soluzione interpretativa nelle realtà vernacolari tutt’ora esistenti nella penisola. Gli intellettuali di questo filone,erano convinti che gli originari idiomi italici sopravvissero alla conquista romana,argomentando che non era possibile imporre una lingua con la stessa facilità con cui si imponevano le leggi. In realtà,un ostacolo alla totale diffusione del latino,proveniva dalla conservazione e dal mantenimento dei dialetti territoriali. A comprovare questa realtà ci sarebbero le famose “atellane”,commedie rappresentate nella stessa Roma in lingua osca. In origine, Roma ospitò un nugolo di genti di diversa appartenenza etnica. Queste differenti tribù,furono a lungo impegnate in conflitti per il primato,come ci confermano le vicende dei Re e le gare insorte fra i vari abitanti primitivi. La storia,inoltre,ci ricorda di un cambiamento importante. Roma,con la sua sagacia,mirava a primeggiare nelle competizioni marziali contro Oschi,Volsci,Etruschi e Sabini. Tuttavia,fu proprio Roma a doversi considerare “vinta”,specialmente riguardo alle usanze del viver civile .Un’importante fonte a suffragare questa credenza è quella che gli studiosi attinsero da Dionigi d’Alicarnasso,secondo cui l’etrusco sarebbe stato ancora in uso ai tempi di Augusto. Ci confermerebbe questa opinione anche quanto riportatoci da Marcellino ,ossia che degli aruspici etruschi sarebbero stati al seguito dell’imperatore Giuliano. Convaliderebbero inoltre quest’ipotesi i “caratteri misti” di alcune epigrafi etrusche,in alcune delle quali viene utilizzato il modo scrittorio alla latina ossia da sinistra a destra,e quelle definite “bilingui”. Gli studiosi appartenenti a questa scuola,rinforzano l’efficacia delle loro convinzioni,mostrando come negli antichi dialetti italici,sebbene molte voci presentano analogia con il greco,col latino,col celtico eccetera,ve ne siano altrettante che non hanno alcuna somiglianza con lingue antiche o moderne. Stando a questa constatazione,si potrebbe facilmente intuire che,disgregata l’unità di Roma,vennero ad unirsi agli ultimi aneliti della favella latina,anche le voci dei barbari,ossia lingue popolari o volgari,che conservavano il loro aspetto primitivo e territoriale. Linguisticamente,accadde che,con la graduale caduta in disuso del latino,gli antichi idiomi italici,si trovarono a  svolgere il delicatissimo compito di “principale risorsa” nel processo formativo dei linguaggi volgari moderni. Uno degli aspetti maggiormente esaminati dagli eruditi per spiegare meglio le connessioni tra i primitivi dialetti e quelli moderni,fu quella caratteristica marcata aspirazione di consonanti e vocali usata dai moderni Toscani. I pareri dei letterati di questa scuola convennero nell’attribuire quella pronuncia gutturale ad un riflesso di etrusco conservatosi nel moderno toscano. Queste vestigia etrusche sarebbero un’eco di quel carattere eminentemente aspirato che ebbe l’antico idioma,il cui alfabeto prevedeva la presenza di numerosi spiriti,pressappoco equiparabili all’H latino. Il Galvani ad esempio,argomenta come la tendenza moderna del toscano a chiudere il suono della o,altro non sia che il tentativo di supplirne l’assenza dall’alfabeto etrusco,dove era spesso sostituita dalla u. Altro fenomeno linguistico che assume a tal proposito un valore di convalida etnografica di questa teoria,proverrebbe dall’uso nel dialetto siciliano di una preferenza della vocale u anziché o. Storicamente è noto che i Siculi furono impegnati in lunghe ed estenuanti battaglie contro gli Umbri dalle quali uscirono sconfitti e si ritirarono nell’attuale area geografica corrispondente alla Sicilia. Altre analogie sono facilmente riscontrabili nel dialetto bolognese,dove frequente è l’utilizzo della sincope,quasi similmente a quanto si verificò nella lingua etrusca. E’ indubitabile che Bologna (Felsina) fu uno dei principali centri etruschi e che vestigia di quell’antico idioma si mantenessero nel suo moderno dialetto,come ad esempio la tendenza ad elidere la vocale a nella desinenza ia. Inoltre,anche numerose forme verbali in uso negli idiomi antichi troverebbero riscontro nei moderni dialetti,in maniera molto più evidente rispetto alle voci latine corrispondenti.




CENNI STORICI SULL’ETRURIA

Anticamente,l’Italia non doveva apparire come la conosciamo noi oggi. Spesso il suo nome fu soggetto a mutamenti a seconda delle epoche e delle vicissitudini che si svolsero sul suo territorio. La sua più antica denominazione pare aver avuto il significato di “Terra Saturnia”,per esser stata protetta dal Nume tutelare a cui gli antichissimi abitatori attribuirono l’aver istituito i principi del viver civile. Altri nomi della penisola in epoche remote,furono Esperia,Enotria e Tirrenia. Queste denominazioni vennero attribuite in base alla loro derivazione dai popoli che l’abitarono. Infatti gli Enotri,erano gli abitanti della regione meridionale dell’Italia,che ricevettero la loro denominazione dai Greci ,mentre i Tirreni (o Etruschi),furono quelle genti che occuparono una cospicua parte della Penisola. L’importanza dell’Italia per coloro che scelsero di abitarvi,fu quello di avere a disposizione una ricchezza ed un’abbondanza di beni necessari al sostentamento degli abitanti. La sua fertilità la fece vedere in tempi remotissimi come un luogo d’amenità,dove tutte le genti potevano godere dei privilegi del viver civile. Un territorio con un suolo così disponibile e fruttuoso non dovette essere a lungo disabitata e quasi sicuramente sul suo territorio,prima d’ogni altra incursione di genti straniere,doveva esserci una popolazione indigena.  Queste tribù indigene,conosciute dagli antichi come Aborigeni,sono reputati essere,oltre i primi abitanti della penisola,anche i primi coltivatori. Tuttavia il nome di Aborigeni,era essenzialmente generico,non designando in particolare una popolazione “italiana” o una straniera. Di loro si sa che condussero una vita molto semplice e dalla testimonianza che Sallustio ci fornì su di loro,apprendiamo che furono incolti,senza leggi e senza governo. Gli abitanti della Penisola,deposta l’indole selvaggia,finirono per diventare un popolo stanziale dedito alla pastorizia ed all’agricoltura. Le tradizioni arcaiche,riferirono che Giano e Saturno furono i re degli Aborigeni e furono particolarmente cari alle prime popolazioni italiche in quanto ritenuti gli istitutori del vivere civile grazie all’introduzione della pastorizia e della giurisprudenza. Sin dall’antichità,i Greci pretesero di essere i responsabili dell’incivilimento dell’Italia,sostenendo di discendere dai Pelasghi, ,di cui è sicuro il passaggio in Italia.Sulla definizione stessa di Pelasghi vi è qualche dubbio. Non sappiamo se questa parola significò per i Greci “selvaggi” o se sotto questo nome si denominava un popolo che conservò la sua indole rozza. Sui Pelasghi sappiamo che abbandonarono la regione corrispondente grossomodo all’Arcadia guidati da Enotro e da Peucezio,stanziandosi,dopo un lungo vagare,sulle coste meridionali dell’Italia. Sappiamo,inoltre,che questa penetrazione avvenne diciassette generazioni prima della guerra di Troia. Altre tribù pelasgiche provenienti dalla Tessaglia,finirono in Italia,dove confluirono anche alcune colonie che,sotto la guida di Evandro,si stabilirono nella zona delimitata dal Tevere. Stando a questa ricostruzione storica,quasi tutto il territorio italiano sarebbe stato pelasgico. Essi,reputati d’indole guerriera,avrebbero combattuto per ottenere nuove colonie e fondare nuove città. Tuttavia,attribuendo quasi unicamente a questo popolo l’istituzione della civiltà,la fondazione di numerose città e l’introduzione di istituzioni religiose,si dovrebbe ammettere la loro influenza anche sulla lingua. Molti studiosi,convincendosi della forte impronta pelasgica in moltissime usanze etrusche,hanno ritenuto plausibile un’influenza di questo popolo barbaro sulle società autoctone della penisola. Infatti,è quasi spontaneo credere che le popolazioni indigene italiane ,avessero un assetto politico e culturale ben definito,con città regolarmente organizzate e con usi e costumi ben sviluppati. Si suppone sia proprio questo il motivo per cui alcuni coloni pelasgici ritornarono nella madrepatria,portando con sé la denominazione di Tirreni,forse proprio in ricordo del paese dove sostarono. Ammesse le migrazioni dei popoli dell’Asia Minore verso l’Italia,dovremmo supporre inoltre che essi compirono un lungo ed estenuante tragitto disseminato di difficoltà. Lasciando dietro di sé mogli e prole,dovettero abbandonare molti dei loro usi e costumi o comunque contaminarli con quelli dei territori che occuparono. Il difficile percorso compiuto in un arco di tempo più o meno ampio,dovette significare il loro imbarbarimento,in quanto lentamente disimpararono la loro lingua natia e finirono per dimenticarsi di gran parte dell’erudizione umana e divina acquisita nella loro terra d’origine. L’instabilità della popolazione pelasgica,tuttavia,ci fanno anche supporre che la loro storia eccessivamente travagliata e passeggera,sia stata d’intralcio alla possibile formazione di un continuato numero di imprese. La nazione etrusca,con tutto il peso della sua importante storia,non può essere esaminata nel suo imponente percorso storico che dall’antichità della sua origine. Ciò che,però,a noi oggi pare misterioso su di loro,probabilmente lo fu pure per gli eruditi  antichi . Certo,possiamo avvalerci di autorevoli fonti in materia ma vanno tutte valutate con la dovuta cautela.  Erodoto,ad esempio,ci disse che i Pelasghi provennero dalla Lidia,sotto la guida di Tirreno,figlio di Ati ed imparentato con Ercole. La fonte erodotea,per quanto interessante ai fini storici,frammischia dati veritieri con altrettanti favolosi,plasmando il suo racconto su reminescenze di trattazioni appartenenti ad autori a lui precedenti. A sfatare la visione erodotea sulla colonizzazione pelasgica,l’opinione di Dionigi d’Alicarnasso,il quale provò a controbattere alle tesi dello storico greco,adducendo come motivo il fatto che un autorevole parere come quello di Xanto di Lidia,dotto erudito dell’antichità,non parlò mai nei suoi racconti né di Tirreno,né di insediamenti di Meonii in Toscana. Inoltre,Dionigi,motivò la sua lontananza dalla tesi dello storico greco,adducendo come motivo il fatto che i Lidii ed i Toscani non ebbero costumi,lingua,leggi,religione comuni. Lo studioso d’Alicarnasso,parve persuadersi circa l’impossibilità di una provenienza pelasgica per le genti d’Etruria,in quanto egli era convinto che i Toscani discendessero da popolazioni native della penisola. In questo modo,Dionigi ,comprovò l’antichità della nazione etrusca ed a suffragare questa tesi intervennero anche altri autori antichi,convinti che la storia della Toscana s’intrecciò con quella dei miti e degli eroi. Un’origine così antica mal si sposa con l’opinione che gli Etruschi possano discendere dalla Lidia,ancor di più se si considera che i Lidii non si distinsero per l’avanguardia delle loro flotte marine,né per abilità commerciale. Non essendo navigatori è dunque difficile congetturare come possano esser trasmigrati in Italia. Ad avvalorare,invece,l’ipotesi di una discendenza italica,ci sarebbe la constatazione che le maggior città etrusche sorsero quasi tutte nell’entroterra,ad esclusione di Populonia,l’unico centro sorto in prossimità della costa. Ciò riproverebbe,tra l’altro,che essi ebbero contatti con popoli stranieri solo successivamente. La denominazione più antica di questo popolo fu quella di Raseni o Traseni e furono i Greci ad affibbiare loro il nome di Tirreni. La sede centrale della potenza etrusca fu quasi esclusivamente compresa in quell’area geografica che fu chiamata “Etruria centrale”,che si estendeva tra i fiumi Arno e Tevere. Il desiderio di possedere sempre nuovi territori ,portò gli Etruschi a spingersi verso le regioni più belle e fertili della Penisola. Essi furono animati dall’ambizione di dominare senza voler necessariamente distruggere le zone prese di mira. In effetti,l’obiettivo di queste lotte intestine che li videro impegnati a guerreggiare con i popoli confinanti,era quello di imprimere la loro supremazia,senza voler radere al suolo le città conquistate. Essi ebbero per questi motivi dei dissapori con i confinanti Umbri che si trasformarono in una vera e propria guerra conclusasi con la vittoria etrusca. Non contenti dei nuovi possedimenti,si spinsero nel settentrione d’Italia,lì dove il Po e le sue paludi costituivano il baluardo degli autoctoni veneti. Le difficoltà di espugnare zone poco agevoli li portò ad occupare le pianure antistanti il fiume e di riuscire ad ottenere lo spazio sufficiente per fondarvi delle colonie. Naturalmente le mire espansionistiche etrusche, puntavano all’usurpazione di territori particolarmente fecondi e fertili. L’area settentrionale del loro dominio,fu chiamata Etruria nuova e contò su importantissimi centri di potere come Felsina (Bologna),Adria,che si distinse per il suo ruolo chiave di snodo commerciale e Mantova,la cui inaccessibile posizione geografica “tra le acque”,veniva ricordata ancora ai tempi di Plinio come un baluardo della nazione etrusca. In realtà,la dominazione dei toscani non fu tirannica. I vinti non poterono lamentarsi delle condizioni imposti dai dominatori,soprattutto poterono trarre vantaggio dall’essere stati presi sotto l’ala protettrice di un popolo ben incivilito e all’avanguardia. Infatti ,la dominazione etrusca fu una sorta di “vassallaggio”, in cui i dominatori chiesero agli assoggettati solo la certezza di alcuni tributi e servigi militari. Probabilmente questa “mitezza” di modi,era dovuta al fatto che questi popoli primitivi non agivano mai spinti da motivazioni individualistiche ma piuttosto lottavano per ottenere benefici per la comunità. Una situazione analoga si verificò anche con le popolazioni dell’antico Lazio,le quali subirono ugualmente la dominazione etrusca e da questo assoggettamento,ebbero come conseguenza l’adozione di numerosi costumi etruschi,specialmente in ambito religioso. In fondo,la conquista di quest’area,era particolarmente utile agli Etruschi,non solo per ingrandire il loro dominio ma soprattutto per avere un nuovo canale di comunicazione con i Volschi,un tempo sudditi dei toscani. Tuttavia l’espansione degli intrepidi toscani,non si fermò al confinante Lazio. Essi giunsero sino al fiume Garigliano,oltrepassandolo e giungendo nell’amena e fertile Campania. Questa prosperosa regione,era governata dagli Oschi che,in seguito all’invasione,furono costretti a cedere i loro possedimenti. Essi disseminarono le loro colonie sino al fiume Silaro. Anche qui fondarono dodici città,di cui la più importante fu  Volturno,l’attuale Capua. Appartennero ai possedimenti toscani anche Ercolano,Pompei e Nola. Gli Etruschi si trovarono un vasto impero da gestire ,che si estese da un mare all’altro. Grazie alla loro abilità marittima,spinsero le loro mire espansionistiche anche verso le isole adiacenti,annettendo ai loro possedimenti l’isola d’Elba e le zone litoranee di Corsica e Sardegna. Una popolazione così impegnata ad offendere,pensò bene di difendersi da potenziali attacchi esterni,fortificando le proprie città con spesse mura. Tuttavia il centro nevralgico di questa organizzata potenza,rimase sempre contenuto in quel territorio conosciuto come Etruria di Mezzo,geograficamente delimitato tra i fiumi Arno e Tevere. Gli Etruschi scelsero di governare i loro possedimenti confederandoli in varie città,alcune di maggiore, altre di minore importanza le quali dipendevano dalle città capitali. I maggiori centri della potenza etrusca furono Chiusi,Volterra,Cortona,Arezzo,Perugia,Volsinio,Vetulonia,Cere,Tarquinia e Veio. Chiusi ha una storia davvero interessante,meritando che si spendano alcune parole su di essa. Mettendo da parte i dubbi sulla sua origine che alcuni attribuirebbero a Tirreno,altri a Telemaco,ciò che è interessante notare,è il significato del suo nome ,che in etrusco fu Camars mentre presso i Latini fu conosciuta come Clusium. Le due voci che formano la denominazione etrusca,rimanderebbero alla sua situazione topografica,significando “chiuso tra le paludi”. Volsinio,secondo gli eruditi corrisponderebbe al territorio dell’agro orvietano ed il suo nome in lingua nazionale fu  Velsuna. L’importanza di questa città si riconnetteva al suo essere un famoso centro religioso,ospitando il tempio della dea Voltumna. Del rilievo che ebbe la città in passato,fece menzione anche Tito Livio ,nominandola “ caput etruriae”,per il suo ruolo di spicco tra le città della confederazione. Grande prestigio tra i centri urbani appartenenti al dominio toscano,ebbe anche Vetulonia. Essa fu la prima capitale dell’impero etrusco,e fu ricordata più dagli eruditi moderni  che da quelli del passato. Plinio (lib.2,cap.103) ci ricorda che anticamente essa si chiamò Vetulonii e nominò Vetuloniensi i suoi abitanti. Anche Silio Italico la nominò nelle sue opere. Circa la sua situazione topografica,apprendiamo grazie ad un passo di Plinio,che essa era prossima al mare,nonostante la città non esisteva più ai tempi dell’autore latino. Anche secondo Cluverio,Vetulonia sorgeva in prossimità del mare. Non è improbabile che la città occupasse l’attuale territorio volterrano. Sappiamo per certo che Vetulonia fu distrutta molti secoli prima della fondazione di Roma. Secondo la ricostruzione di Ermolao Barbaro,la città coinciderebbe con Orbetello ma quest’ipotesi appare assai improbabile. Stando alle opinioni di altri eruditi,essa potrebbe essere sorta nell’agro pisano,e,più precisamente ,fra Populonia e Pisa. Tanta confusione topografica,è stata accompagnata da altrettanta incertezza sull’identità del suo fondatore. Alcuni studiosi rintraccerebbero il suo fondatore in Tarconte,mentre secondo altri eruditi pareri,l’edificazione di Vetulonia sarebbe stata opera di Ogige. Risulta storicamente accertato,che in Etruria regnò Giano Veio -lo stesso  Giano che diede nome al Gianicolo -il quale venne ricordato per aver introdotto nelle città il culto di Vesta e ,nelle contrade,quello delle Vestali. Egli,inoltre,fu a lungo impegnato a guerreggiare contro i Celtiberi e,dopo averli sconfitti,dedicò a Crono una selva nei pressi di Vetulonia. Stando a queste informazioni,alcuni studiosi azzardarono ad interpretare il nome della città come significante  “stagno” od “acqua incostante”. Le origini eroiche delle sue città,la complessità delle sue strategie di conquista,fecero degli Etruschi un popolo assai dinamico ed un vero e proprio modello di civiltà per i popoli ad essi coevi. Tuttavia,per quanto innovativi,temerari ed assetati di potere furono,non riuscirono ad esentarsi da una delle più grandi piaghe di tutti i tempi :la superstizione.
GLI ETRUSCHI E LA SUPERSTIZIONE
Sin dai primordi della civiltà umana,la superstizione ha avuto un ruolo importantissimo,condizionando pesantemente le vite degli uomini,paragonabile ad un’insidiosa piaga che ha colpito da sempre ed in ogni dove. Sovente,le svariate forme delle paure umane sono confluite nell’immagine spaventosa della Furia,il cui effetto era quello di soggiogare i popoli,fomentando in loro terrore e psicosi. Non poterono rimanere immuni dal partecipare alla timorata sottomissione gli Etruschi,considerati uno dei popoli scaramantici per antonomasia. Essi,nel loro assetto societario,ebbero in grande considerazione la casta sacerdotale (i lucumoni),reputati depositari delle cognizioni scientifiche e letterarie. Tra le prerogative di questa temibile entità soprannaturale,v’era quella di governare i fenomeni della natura,tra cui tuoni e fulmini. Dall’osservazione dei fenomeni naturali,dalla loro interpretazione in chiave superstiziosa,non poteva che scaturire anche presso di loro una “servitù della moltitudine”.  Questa convinzione di far coincidere i fenomeni naturali con precise azioni divine non era credenza esclusiva degli Etruschi. In realtà,anche presso altri popoli antichi il culto del fulmine assunse grande importanza. Stando a quanto ci riferisce Pausania,nella città di Seleucia,il fulmine era venerato come una divinità suprema. In suo onore si intonavano inni ed il suo culto prevedeva particolari rituali. Sostanzialmente,l’importanza del culto fulgurale,era legata al fatto che il fulmine altro non era che il simbolo di Giove,strumento attraverso il quale il padre degli Dei castigava gli spergiuri. Di fulmini,inoltre,si parla nella mitologia,come nella favola dei Ciclopi,i quali su commissione di Giove,fabbricavano i fulmini nella fucina dell’Etna. La loro preparazione consisteva nel mischiare i terribili lampi,lo spaventoso strepito,le fiamme striscianti,la collera di Giove ed il terrore degli uomini. Tuttavia il fulmine non fu attributo esclusivo del padre degli Dei. Anticamente si ritenne fosse anche attributo del dio Bacco. Tornando alla dottrina tonitruale e fulgurale,va detto che nessun altro popolo fu più esperto degli Etruschi in questa disciplina. Attraverso questa scienza,i lucumoni etruschi,erudivano il popolo in questa temibile dottrina. Essi immaginarono una vera e propria classificazione dei fulmini,distinguendo quelli cosiddetti di consiglio,quelli di autorità,di decreto,i postulatorii,i monitorii,i confermato rii,gli ausiliari,gli ospitalieri,i fallaci,i pestilenziali,i micidiali,i minatorii ed i reali,inserendo la loro trattazione in una sorta di diario,di rituale. Nelle loro discipline augurali,ebbero come guida la luna,attraverso le cui fasi avveniva l’esposizione dei segni tonitruali e fulgurali. Infatti essi argomentarono la cognizione diurna dei tuoni,proprio grazie all’ausilio del novilunio. Il Diario o Rituale Fulgurario e Tonitruale etrusco, partiva dal primo giorno lunare del mese di giugno. Se avesse tuonato in quel giorno,vi sarebbe stata abbondanza di biade –ad esclusione dell’orzo- ma gli uomini sarebbero stati attaccati da morbi perniciosi. Se avesse tuonato nel secondo giorno,invece, le donne avrebbero partorito più facilmente,le greggi avrebbero subito una moria ma vi sarebbe stata abbondanza di pesci. Tuonando nel terzo giorno,si sarebbe verificato un inaridimento dei prodotti della terra e sarebbero andati bruciati quelli verdi ed umidi. Se avesse tuonato nel quarto giorno,vi sarebbe stata grande nuvolosità e frequenti piogge, tanto da perdere le biade a causa dell’umidità. Tuonando nel quinto giorno,sarebbe stato infausto presagio per le campagne ed il conseguente turbamento di tutti gli uomini. Se,invece,avesse tuonato nel sesto giorno,le biade mature sarebbero state attaccate da un insetto nocivo e se fosse capitato nel settimo giorno,si sarebbe manifestata  la presenza di morbi senza tuttavia contare molte vittime ma si sarebbero rinvigorite le biade secche e sarebbero andate perse quelle umide e secche. Questo rituale proseguiva analogamente anche per tutti gli altri mesi. Per comprendere ancora meglio l’autorevolezza di questa scienza,possiamo ricordare la testimonianza di Plinio (lib. II,cap.52),il quale ci racconta che nella teogonia etrusca,erano nove le divinità incaricate di scagliare i fulmini, a Marte ad esempio,spettavano quelli capaci di provocare incendi. Attraverso Plinio,inoltre,veniamo a conoscenza che ai suoi tempi era considerato un grande esperto in materia il re Numa. La superstizione etrusca,non si fermò alla scienza tonitruale e fulgurale ma estese il suo dominio anche in altri misteriosi campi. Sappiamo che furono esperti di numerologia  e che ogni anno i re-sacerdoti etruschi,si riunivano presso il santuario di Voltumna – importante centro politico e religioso dell’Etruria- e piantavano un chiodo di bronzo. In totale furono contati 961 chiodi,corrispondenti grossomodo ai 961 anni di vita del popolo etrusco. La codificazione di ciò che apparteneva alla sfera magica,fece da sempre parte della civiltà etrusca. Il numero 16,ad esempio,ebbe per loro grande importanza perché equivaleva all’inizio della vita assegnata al popolo etrusco. Stando alla loro ricostruzione numerologica,i secoli ebbero cadenza lineare,in quanto duravano cento anni precisi.
Il numero 13 era considerato negativo,indicando che il secolo successivo avrebbe costituito il tramonto della civiltà etrusca. Ciò fu sostenuto non a torto se si tiene presente che nel 474 a.C. subirono una pesante sconfitta navale a Cuma,mentre nel 48 a.C. la città etrusca di Veio entrò in lotta contro Roma,guerra che si concluse nel 396 a.C. con la capitolazione della città ed un lento avvio verso il declino dell’Etruria. Nel quinto secolo di vita,la linearità numerologica del popolo etrusco si interrompe ,presentando numeri differenti per l’inizio e la fine di un secolo. I numeri sacri agli Etruschi erano il 16,il 4,l’8 ed il 64. In particolare,il 16 era considerato sacro in quanto era legato alla vita della civiltà etrusca (9+6+1=16). Inoltre questo numero,simboleggiava lo “spazio” ed il “tempo”,poiché entrambi si esprimevano in sedicesimi. Essi,infatti,erano persuasi che la durata della giornata fosse di 16 ore di 90minuti l’una,prevedendo 8 ore per il giorno ed 8 per la notte. Analogamente,anche per dividere lo spazio dei segni divini,si applicava un criterio simile,sostenendo che il cielo e la terra erano divise ciascuna in 16 regioni di influenza di cui 8erano le positive ed 8 le negative. Questa suddivisione era basilare per l’interpretazione corretta dei segni divini provenienti dal cielo,specialmente per comprendere la direzione dalla quale provenivano le folgori celesti,evento che se captato nella sua significazione magica,permetteva di prevedere eventi futuri.La numerologia,inoltre,offrirebbe uno spunto interessante per l’ermeneutica della lingua etrusca. Lo si evincerebbe dalle facce di alcuni dadi etruschi (i cosiddetti “dadi Tuscania”,conservati presso il Museo Nazionale di Parigi),i quali mostrerebbero non i simboli dei numeri ma i nomi etruschi degli stessi. Quelli certi sono Thu corrispondente ad 1,Zal,ossia 2;Ci,equivalente a 3 e Mach,rispondente al numero 5. Ci sarebbero poi Huth e Sa,sui quali gli studiosi hanno a lungo dibattuto circa la loro attribuzione rispettivamente al 4 ed al 6. I pareri degli eruditi,si divisero in due diverse scuole di pensiero. Da un lato,si posero coloro che attribuirebbero ad Huth il valore di 4,prendendo in considerazione il nome greco della città di Hyttenia,Τετράπολις ma anche a causa di una didascalia ritrovata presso la Tomba dei Quattro Caronti a Tarquinia,Charun Huths. L’altra scuola,annovera quegli studiosi che da un esametro dell’ Anthologia Palatina avrebbero dedotto che la somma dei numeri delle opposte facce dei dadi,risulterebbe in ogni caso  7. Stando a quest’asserzione,essi interpreterebbero Huth con il numero sei,in quanto nei dadi di Tuscania la voce Huth è opposta a Thu (=1). Tra gli studiosi appartenenti al primo filone interpretativo,vi erano coloro che si mostrarono convinti della provenienza indoeuropea dell’idioma etrusco,aderendo,quindi al “metodo etimologico”. Fra gli studiosi appartenenti a questa prima classe,inoltre,figurarono anche alcuni eruditi che sostennero  il cosiddetto “metodo combinatorio”,ossia la convinzione dell’estraneità etrusca ad una matrice indoeuropea . Quest’ultimo ramo della prima scuola,attribuiva ad Huth e Sa i valori che sarebbero risultati dall’applicazione della “regola del sette” facendoli,quindi,corrispondere ai dadi moderni. Sappiamo tuttavia,che questo principio poteva applicarsi ai dadi cubici,perché l’altra tipologia di dai in uso presso gli Etruschi,quelli di forma parallelepidica,seguivano  la disposizione progressiva. Un popolo legato al mistero ed altamente suggestionabile quale fu quello etrusco,non fu un caso isolato nella Penisola. Un ardito paragone potremmo azzardarlo tra gli Etruschi ed il popolo Messapico. Anche quest’ultimo legava la sua origine al mistero. Nelle teogonie di entrambi i popoli,fondamentale importanza assunse una coppia divina –che per gli Etruschi corrispose a Aite Persipnai- ed ambedue ebbero una similare concezione della morte. Questi due dei furono importantissimi per la civiltà etrusca. A volte,la coppia è stata dipinta in presenza di un serpente,il cui rapporto con gli dei in questione ,oltre al legarsi ad un immediato rimando all’impianto sepolcrale,si legherebbe al valore assunto dal rettile sia nei culti bacchici che in quelli degli dei degli Inferi,simboleggiando la “rigenerazione”.  La regina degli Inferi,l’inviolata figlia di Cerere,corrispondente anche alla Περσεφονη greca,fu particolarmente cara agli Etruschi ed immagine usitata nelle pitture parietali dei sepolcri di questo popolo. Sul dio Plutone,è bene spendere qualche parola in più,in cui sia le sue denominazioni che la sua funzione,mostrebbero un’ intricata trama. In alcune pitture tombali,al dio è stato dipinto il capo leonino,che parrebbe allusivo del suo carattere di Sole-Infero,qualità che lo avvicinerebbe tra l’altro ad Ercole,considerato nella religione fenicia,il Dio Sole. Maggior attenzione meritano tuttavia gli appellativi del Nume. Uno dei nomi con cui fu conosciuto presso l’antico popolo toscano fu Eita,appellativo che,a primo acchito,ci rimanderebbe sia per la forma che per la sostanza all’Άιδης  dei Greci. Leggendolo in questa maniera,ci parrebbe di potervi scorgere una chiara impronta dorica ma non si tratta che di un’ipotesi. Gli attributi in dotazione al dio greco sapiamo essere sostanzialmente legati ad un’azione  sotterranea,invisibile e vegetativa del Nume. Uno spiraglio di luce per comprendere ancora più a fondo quante e quale influenze subì la religione etrusca,ci è offerto dalla lingua osca. Eita,potrebbe essere messo in relazione alle forme Eitva,Eitpi,Ituvas,ecc. –già note in alcune iscrizioni etrusche-ma meglio ancora pare indirizzarsi verso il termine osco Eitiuva,Eitua ed i suoi diversi casi,il quale significherebbe “pecunia”, “impensa”. Inoltre,esso fu relazionato al termine etrusco Itus,che Varrone pare tradurre con “Idus” od “Eidus”,racchiuderebbe in se il significato di “divisione”,che può essere applicata ai giorni, ai mesi e così via,non rigettando  nelle sue varie significazioni ,la vicinanza con la “moneta” .Tuttavia Eita non è l’unico nome atto a designare il dio degli Inferi nella religione etrusca. In più di un’occasione,Plutone è stato denominato Mantus. Su questo particolare appellativo,si soffermarono anche alcuni commentatori di Virgilio,mettendo in relazione la città natale dell’autore latino –Mantova- con il Nume. Questo nome,è stato a lungo vittima di controversie da parte di numerosi studiosi,i quali hanno assunto diverse posizioni in proposito. Secondo alcuni Mantus potrebbe ridursi ad un parola latina e deriverebbe da “Manes” e “Tueri”,assumendo significato di “guardiano delle anime”. Altri studiosi lo vollero avvicinare allo stesso radicale che è presente in “Manes”(da “manus”,buono),facendone risalire l’origine ai Sabini. Secondo altri,poi,il nome del dio conterebbe una traccia del Rhada- Manthus egizio. Tuttavia,l’origine dell’appellativo potrebbe essere ancora più complessa delle ipotesi qui riportate.Esso potrebbe rivelare un’origine celto-gallica. Presso queste popolazioni settentrionali,i nomi propri formati con Manduus o Mandus,conterrebbero in sé il concetto di “copia”,di “ricchezza”. Tale asserzione assumerebbe validità qualora la voce venga riferita a Mand o Mann,termine tradotto con Imat ed equivalente a “multus”,”multitudo” e simili. L’ipotesi non sembrerebbe essere totalmente fuori luogo qualora si considerasse le relazioni sociali tenute dagli Etruschi con il mondo celto-gallico,anche se resta pur vero si tratti pur sempre di congetture. Tanta specificità,altro non esprimerebbe che il fortissimo valore della simbologia topico-infernale presso gli Etruschi,i quali,com’è noto,apparterrebbero ai popoli la cui dimensione religiosa può essere definita “religione dei morti”. Le analogie che gli antichi toscani ebbero con diversi popoli,anche lontani da loro,si estrinsecano maggiormente sul piano del loro apparato religioso,ossia nei loro istituti di culto.  Tanto per gli Etruschi,quanto per i Messapi ,la necropoli era intesa come una vera e propria città,la città dove risiedevano i morti . Inoltre,il “mundus” etrusco potrebbe a buon diritto essere paragonato alla grotta messapica,entrambe intese come snodo cruciale per il passaggio delle anime nel mondo sovrannaturale. Analogamente ai Messapi,anche gli Etruschi avevano un  dio del fulmine (Apulu)ed altri due dei specifici della sfera superstiziosa. I poteri di queste due divinità etrusche era equiparabile a quelli ritenuti da analoghe entità nella teogonia messapica. Un importante rito della civiltà etrusca era quello dell’aruspicina. Presso gli antichi,con questo nome si indicava il completo apparato della disciplina etrusca. Attraverso Cicerone,veniamo a conoscenza che il suo significato specifico corrispondeva all’ispezione delle viscere delle vittime sacrificali (exta). L’aruspice (Haruspex) veniva sovente identificato con l’Extispex. Entrambe i termini evidenziano una comune etimologia -sebbene essa non sia di chiara provenienza-, collegata anticamente con la voce Haruga,nome indicativo proprio della “vittima sacrificale”. L’istituzione della dottrina etrusca,si farebbe risalire a Tagete,identificato anche come l’autore dei LIBRI HARUSPICINI,successivamente annoverati da Cicerone tra i tre libri fondamentali della letteratura sacra etrusca. Tuttavia non ci è pervenuto alcun frammento di queste opere. Le viscere degli animali erano ispezionate per scopi divinatori (le Hostiae consultatoriae,”sacrificio”). L’aruspicina,tuttavia,non era appannaggio esclusivo degli Etruschi ma fu comune anche ad altri antichi popoli. Ogni singola parte del corpo della vittima,ogni sua membra,ogni suo atomo,costituiva un microcosmo ed,infatti,analizzando le viscere si riusciva a ricostruire con esattezza l’ordine dell’universo. Attraverso l’Extispicina,l’aruspice effettuava una suddivisione e classificazione delle singole parti,allo scopo di interpretare il messaggio divino. Generalmente,le vittime sacrificali erano pecore ma fonti latine ci riportano anche il toro come animale impiegato. L’uso dell’Extispicina fu attestato anche a Roma,le cui cognizioni erano affidate agli auguri. La sostanziale differenza tra la disciplina etrusca e quella sviluppatasi a Roma,consisteva nel fatto che mentre l’augure romano consultando le vittime,poneva una domanda al dio ,l’aruspice etrusco,dall’attenta analisi delle viscere,estrapolava un vero e proprio responso. Anticamente,molti usi e costumi erano comuni a popoli geograficamente lontani tra loro. Analogie tra usanze tipiche di lontane etnie,si verificarono anche per gli Etruschi,che a buon diritto,potevano definirsi uno dei popoli maggiormente all’avanguardia per gli istituti civili.
ANALOGIA D’USANZE : GLI ETRUSCHI E LE LORO SIMILITUDINI CON POPOLI LONTANI.
Indagando nella storia dei costumi delle antiche popolazioni,si è notato che molte furono le genti che legarono la loro storia al mistero e,in un certo senso,intrecciarono le loro origini ai tempi degli dei e degli eroi. E’ il caso,ad esempio,dei Messapi,i quali ebbero delle analogie non solo con la storia ma anche con le usanze etrusche. A suffragare l’ipotesi di una sussistente similitudine,c’è una leggenda, quella della ninfa Themis,patrona dell’aruspicina. Essa ,dalla città arcadica di Pallanza,sarebbe venuta a stanziarsi in terra Messapica,dove ritrovò il proprio alfabeto inciso su una tavoletta bronzea presso il tempio di Minerva e da qui lo esportò nel Lazio,formando l’alfabeto dei Latini. Tuttavia,l’analogia tra i due popoli che maggiormente sorprende ,è costituita dalla somiglianza del loro assetto sociale e politico. Entrambi i popoli, prevedevano criteri organizzativi gerarchici. In cima a questa rigida ed ordinata disposizione,al vertice vi era l’aristocrazia sacra,presieduta da un re. Per entrambi i popoli,l’unità politica si estrinsecava attraverso l’assetto urbano. I criteri urbanistici erano ben definiti. Ogni città possedeva templi e ,quasi tutte,a pianta circolare. Inoltre,ogni unità urbana, rappresentava un’istituzione  autonoma. Sappiamo che nel V sec a.C.,i Messapi confederarono le proprie città in una “lega sacra” ,strutturata sostanzialmente sul modello di quella tipicamente etrusca della “dodecapoli” .Il numero 12,in effetti,sembra ridondare nella cultura etrusca. Tuttavia, le somiglianze tra i popoli,le loro apparenti analogie,non debbono per forza indirizzarci a credere che vi sia un’uguaglianza di stirpe ,o che necessariamente un popolo possa essere derivato da un altro. Le similitudini si creano sovente in virtù di quell’indole comune agli animi umani di provare i medesimi istinti,di avvertire le stesse esigenze. Ciò spiegherebbe la comune tipologia di usanze presso gli antichi popoli. Ravvisare i costumi etruschi presso altre etnie,non ci porta solo in terra Messapica come abbiamo detto poc’anzi o in terra cananea,come sostenevano gli etrusco-semitisti. Secondo alcuni ci sarebbe una forte componente egiziana nelle costumanze etrusche,in virtù di un’analogia di istituti. Sappiamo ad esempio,che gli Egizi,similmente agli Etruschi,avevano in gran considerazione il passaggio dalla vita terrena a quella ultraterrena,considerando la morte non un fenomeno negativo ma un passaggio che il trapassato compiva verso l’eternità. Come in Etruria,così in Egitto,si badò con maggior attenzione alla costruzione di sontuose tombe che alla fabbricazione di dimore. Volendoci spingere ancora più lontano dell’Egitto,più lontano della Persia e più lontano del mondo celtico,potremmo ravvisare delle analogie tra gli Etruschi e i Celti. Sappiamo che,come le popolazioni celtiche,gli Etruschi ebbero molta devozione per la Madre Terra,ritenuta elargitrice di beni di prima necessità per gli uomini come cibo,acqua,fibre vegetali e pelli animali per vestirsi.  Inoltre tra i due popoli si potrebbe ravvisare un’interessante somiglianza circa una loro misteriosa usanza,quella della costruzione di misteriose vie. Presso i Celti,questi oscuri passaggi presero il nome di “menhir”,grandi blocchi di pietra verticali impiantati nel terreno,equiparabili alle “vie cave” disseminate nel territorio etrusco. Queste misteriose vie costruite dagli abitanti dell’Etruria,erano dei veri e propri percorsi fabbricati mediante lo scavo di rocce tufacee molto,al di sotto del livello del terreno.  La loro funzione era quella di avvicinare quanto più possibile gli uomini a quel mondo sotterraneo che secondo gli Etruschi era fonte primaria verso il potere sacro.  Ma il simbolismo religioso di queste enigmatiche costruzioni,non può non trovare  corrispondenze col mito di Tagete,ritenuto dispensatore di saggezza e conoscenze superiori.  La direzione di queste “vie” pare che fosse quella di farle convergere in un solo punto,corrispondente al lago di Bolsena. Gli accessi a queste vie,erano immersi nella vegetazione. La convergenza dei percorsi  nel lago di Bolsena è particolarmente interessante. Velzna,nome etrusco del lago,il quale fu ,tra l’altro,un importante centro di potere. Si legava al culto della dea dell’acqua,diffuso presso gli Etruschi. In questa località,annualmente,i 12 lucumoni etruschi si riunivano,compiendo riti segreti. La devozione etrusca verso dei tutelari degli elementi naturali,si riconnetterebbe quindi ad analoghe usanze presso popoli molto lontani da loro. E’ il caso ad esempio,dei già citati menhir celtici. In entrambi i casi queste enigmatiche costruzioni ebbero la funzione di indicare l’andamento delle “linee magnetiche terrestri”. Entrambi erano molto importanti in quanto indicavano il loro intimo legame con la Madre Terra. Le analogie tra i popoli e ,nello specifico,quelle che hanno visto protagoniste gli Etruschi,hanno avuto riscontri anche nel campo dell’arte,settore che vide i Toscani distinguersi per abilità ed importanza.
L’ARTE ETRUSCA
La complessità di un popolo,le sue attitudini ed il carattere delle loro usanze,confluiscono quasi inevitabilmente nella loro produzione artistica. In questo settore,ancora una volta,gli Etruschi hanno avuto tanto da insegnare alle popolazioni loro contemporanee e altrettanto tanto a quelle che sono seguite.
▪ L’ARCHITETTURA
 La loro indole bellicosa,la loro tendenza ad offendere allo scopo di affermare con vigore la loro supremazia,si espresse artisticamente,nella loro architettura. Essi possono esser considerati gli inventori della cosiddetta “architettura funzionale”,quel militaresco fare con cui espressero il loro bisogno di cingere le città con spesse mura di pietra spanate. Quello toscano fu,in effetti,un vero e proprio “ordine architettonico”,tanto che l’autorevole parere del Tiraboschi lo inserì tra quelli più importanti dell’antichità,definendolo,tra l’altro il più semplice,comprovando in questo modo l’antichità della nazione. La “funzionalità” dell’architettura etrusca,si riflesse anche nella costruzione delle case, dove dalla tipologia di pianta ellittica in voga nella prima metà dell’VIII secolo a.C., si passo ad  un’evoluzione verso la scelta di una pianta rettangolare con conseguente aumento della volumetria. Ciò che maggiormente palesò questa loro praticità fu la scelta dei materiali. che Le fondamenta delle case etrusche sono in pietra,raggruppati in solidi blocchi. Per le mura,essi optarono per un materiale laterizio semplice : il mattone crudo ed il traliccio,mentre i tetti,inizialmente a doppio spiovente,vengono muniti di una copertura di tegole per rafforzarne la stabilità e la resistenza agli agenti atmosferici. Analogamente ai centri abitati micenei,quelli etruschi si svilupparono per lo più in luoghi collinari. Tuttavia ricostruire con esattezza il tipo di arredamento delle loro dimore non agevolmente delineabile,specialmente in virtù della loro scelta di servirsi di materiali facilmente deperibili. L’assetto urbanistico è ordinato da scoscendimenti naturali ma non privo di regolarità. Sostanzialmente essi mantennero questa regolarità ordinatrice anche nella disposizione delle loro necropoli. In età arcaica essi costruirono dei meravigliosi templi di cui oggi ci resta testimonianza unicamente attraverso qualche resto di basamento in pietra. Sicuramente possiamo evincere che utilizzarono materiali edilizi molto “leggeri” e quindi facilmente deperibile. Potremmo azzardare ad accomunare il tempio etrusco a quello greco,con l’unica differenza che l’etrusco sorgeva su un podio a cui si accedeva tramite una scalinata frontale. Gli eruditi chiamarono  le costruzioni etrusche “ciclopee”,le quali non ebbero né carattere fenicio,né egizio ma furono considerate indigene. Possono essere considerate tali,ad esempio,le mura di Volterra e di molte altre città dell’antica Etruria,costituite da pesanti macigni tenuti insieme unicamente dal loro peso. L’innovativo apporto etrusco all’architettura e alle arti in generale sarebbe andato perso durante la distruzione romana se non fosse stato che la loro genialità gli permise di mettere in salvo almeno una parte della loro produzione artistica.
▪ LA SCULTURA
Gli Etruschi si dimostrarono sin da subito,esperti anche in altre arti. Già dall’età del rame,essi svilupparono grande perizia nella scultura.  Un arcaico esempio di scultura etrusca è costituito dalle “coppelle”,forme scavate nel tufo –principale materiale laterizio del territorio- di forma “antropica”. Tuttavia il significato di queste opere resta tutt’oggi avvolto dal mistero. Probabilmente ebbero una forte connessione con simbologie astronomiche,in quanto molte delle coppelle ritrovate,sono collocate in zone che un tempo dovevano fungere da osservatori astronomici,nonché luoghi  di culto. Sappiamo infatti che entrambe erano intimamente correlate anticamente e che probabilmente il posizionamento di quei grossi blocchi di pietra,indicava degli allineamenti astronomici importanti. La congettura più verosimile è che si riferissero al tramonto del sole durante il solstizio d’inverno,come ci lascia supporre l’orientazione di una fenditura incisa dalla mano dell’uomo sul blocco. La statuaria etrusca che molto spesso fungeva da ornamento dei fastigi dei templi,era quasi esclusivamente eseguita in terracotta anche se gli Etruschi mostrarono di apprezzare molti altri materiali nella manifattura dei loro lavori. In molti casi le loro opere erano fittili,altre volte bronzee,ed in altri casi in pietra locale. Non utilizzarono mai il marmo e questa è probabilmente una delle più notevoli differenze tra l’arte statuaria etrusca e quella greca. La scelta di non eseguire lavori in marmo,non provenne dalla mancanza di questo materiale. Sappiamo che gli Etruschi ebbero rapporti commerciali con la Grecia da dove avrebbero potuto importare il marmo ma è anche noto che se avessero voluto sfruttarlo,potevano benissimo prenderlo dal loro territorio. Basti pensare alle risorse marmoree che avrebbero potuto avere a disposizione dalle Alpi Apuane. Probabilmente la loro fu unicamente una scelta. Il marmo è di per sé un materiale idealizzante e questo sarebbe stato contraddittorio verso la loro concezione dell’arte intesa come messaggio recante immediatezza. La preferenza degli artisti etruschi andò verso la scelta di materiali locali come ad esempio l’argilla,che se da un lato poteva essere considerato un materiale “povero”,dall’altro si manteneva coerente con la funzionalità della loro arte e col messaggio di immediatezza. Il concetto doveva essere grossomodo,che la fragilità del materiale fittile era paragonabile alla caducità delle cose terrene.
▪ LA MAGGIOR ARTE ETRUSCA : L’ARTE FUNERARIA
La scelta dei materiali influì anche in quel settore artistico dove maggiormente si distinsero per perizia gli Etruschi :l’arte funeraria. Essa era un ensemble di tutte le arti,comprendendo al suo interno architettura,scultura e pittura. L’assetto urbanistico etrusco,era ordinato da scoscendimenti naturali ma non privo di regolarità. Sostanzialmente essi mantennero questa regolarità ordinatrice anche nella disposizione delle loro necropoli. La disposizione sotterranea delle costruzioni funebri,è stata una scelta fondamentale,in quanto ha salvaguardato gran parte del patrimonio artistico dalle manomissioni. L’importanza dell’arte funeraria è,inoltre, legata alla loro religione,che potremmo definire una “religione delle tombe”. Nella concezione etrusca,che palesa evidenti affinità con quella egizia,la costruzione della tomba non era unicamente un’esperienza artistica ma recava in sé molteplici simbologie. Essi non ebbero una visione negativa della morte,per questo curarono maggiormente le costruzioni mortuali rispetto alle loro dimore quotidiane. Per gli Etruschi,la morte era nient’altro che il passaggio della vita verso l’eternità. Dalle necropoli,inoltre,provengono la maggior parte delle informazioni che ci hanno permesso di delineare i costumi etruschi. I superstiziosi toscani,come gli Egiziani,erano convinti che i defunti continuassero a vivere nelle loro tombe,quasi come avevano fatto in vita. Proprio per questo,essi non vivevano la morte come un distacco ma come un passaggio dalla vita terrena a quella ultraterrena. Fu costume etrusco quello di portarsi le mani alla testa per manifestare il dolore ma era questo un atto più formale che espressione del vivo dolore. Importante è il notare che ,le tombe, sovente avevano aspetto di vere e proprie dimore,dove delle porte mettevano in comunicazione tra loro diversi vani. Erano inoltre riccamente arredate con numerose suppellettili,con sculture e pitture parietali.
L’immenso patrimonio artistico costituito dalle necropoli,ha evidenziato alcuni tratti importanti della pittura etrusca.. Imitando la disposizione delle dimore,le tombe etrusche erano curate nei minimi dettagli e le pitture parietali costituivano uno dei più interessanti ornamenti. Nelle tombe più antiche,la pittura era applicata direttamente alla superficie rocciosa e ,solo successivamente,fu introdotto il metodo di stendere dapprima uno strato di intonaco e poi dipingervi. Analogamente a quanto avvenne nella pittura greca antica,le parti nude del corpo maschile erano dipinte in rosso o in bruno,mentre quelle del corpo femminile erano bianche. Questa scelta tonale,derivava dalla loro realistica convinzione che l’uomo svolgendo la maggior parte della sua vita all’aria aperta,assumesse un colorito più scuro rispetto alla carnagione femminile,candida perché sempre rinchiusa tra le pareti domestiche.
Nell’arte etrusca,un particolare notabile è la “forza sintetica” delle rappresentazioni, caratterizzate da un’essenzialità del tratto specialmente nelle raffigurazioni delle fattezze umane. La loro tendenza ad un’estrema stilizzazione,mira a superare il realismo. Infatti,l’assenza di realismo corrisponde esattamente all’assenza di ogni idealismo. Semmai ci troviamo di fronte ad una tipizzazione,in questo caso della morte,rappresentata nella sua più autentica fissità. I costumi etruschi,analogamente a quelli di altri popoli primitivi,furono molto semplici. Nella satira VI di Giovenale scopriamo esser stati affini le virtù domestiche delle donne etrusche e quelle delle matrone romane dei primi secoli di Roma. Successivamente,le costumanze etrusche si adeguarono al loro rinnovato stile di vita che si plasmò sulla base di una prosperità nazionale che si sostentò grazie ad una fiorente agricoltura e alle risorse naturali messe a disposizione dalla fertilità delle terre che abitarono. Dalle necropoli provenne anche il fitto numero di contenitori,di vasellame e di recipienti,che ci hanno offerto un’interessantissima testimonianza delle usanze toscane.  Dalle necropoli di uno dei più importanti centri etruschi,Chiusi,rinvennero delle urne ,i “canopi”,in bronzo,in terracotta o in bucchero,chiuse da un coperchio a forma di testa umana (probabilmente raffigurante le fattezze del defunto). Il vaso veniva poggiato  su di una sorta di sedile tondeggiante,all’interno di un grande recipiente fittile (lo Ziro). Nei vasi fittili al cui orifizio è sovrapposta una testa umana,l’allegoria  potrebbe spiegarsi  intendendo il recipiente come simbolo del ”mondo”,mentre la testa umana rappresenterebbe la divinità che lo governa dall’alto dei cieli. La predilezione etrusca per i dettagli è visibile inoltre nel corredo funerario etrusco, dove grande importanza avevano i vasi,le cui numerose forme testimoniavano la diversità delle funzioni svolte. Ad esempio,essi avevano le olle,recipienti che servivano a portare in tavola sia il “liquame”,che le zuppe,spesso munite di coperchio per mantenere caldi i cibi. Ma il corredo delle stoviglie non si limitò al vasellame. Essi utilizzavano piatti e ciotole,per deporre accanto alle minestre o alle carni anche del liquido. Per versare da bere avevano le brocche e alcune anfore per portare in tavola acqua e altre bevande. Tra il vasellame presente nelle tombe,si attestano vasetti lacrimatori,successivamente denominati “unguentari”,in quanto spesso erano raffigurati in mano ad un personaggio intento a versare unguento sul rogo. Essi erano simili ai vasi egizi i quali avevano la stessa funzione. La fragilità dei materiali impiegati,come ad esempio per alcuni la friabile pietra arenaria,erano spesso ritrovati mutili. Stessa sorte era comune anche ai vasi fittili sepolcrali,spesso rotti dagli antichi. Probabilmente questo poteva far parte di un cerimoniale liturgico ferale.  Il contenitore delle ceneri del defunto,ad esempio,è un altro ottimo strumento di ricostruzione delle usanze etrusche. In un esemplare conservato nel Museo casa Bruschi di Arezzo,ne abbiamo uno sul cui coperchio è raffigurato il defunto durante il banchetto,assiso su una sedia dinanzi ad un tavolo a tre gambe imbandito,accudito da una figura femminile,probabilmente la moglie o una serva. Presso gli Etruschi,fu usanza imbandire mense anche presso l’eterna dimora del trapassato. Sostanzialmente,la tematica del banchetto era ridondante nella cultura etrusca. La prassi raffigurativa prevedeva un banchettante semisdraiato sul letto conviviale (kline) con il gomito sinistro poggiato su uno o più cuscini. Quest’uso fu ,però,la conseguenza di una moda introdotta in Etruria durante il VI sec.a.C.,in quanto ,precedentemente,si usava consumare i pasti seduti di fronte ad un desco. Probabilmente,gli usi del banchetto gentilizio,furono plasmati sul modello di quello usato nella Grecia orientale. Proprio per questo suo aspetto aristocratico,fu scelto come motivo decorativo di alcune lastre presso le residenze principesche,alludendo all’esaltazione dell’opulenza e dei fasti della classe dominante. Lo stesso motivo,nell’arte funeraria tardo antica,andò ad assumere grande importanza,raffigurando scene simili al simposio greco. In molte rappresentazioni conviviali,compare anche la donna,sovente accanto all’uomo,quasi a simboleggiare il grande valore della coppia coniugale e della famiglia. Il valore sociale della famiglia nel mondo etrusco era molto importante e rappresentare una coppia durante un banchetto,equivaleva anche a rendere omaggio alla famiglia cui la tomba era destinata. La presenza di figure femminili durante i banchetti è molto importante,soprattutto perché si pone in controtendenza alla tipica scena conviviale greca la quale era esclusivamente appannaggio degli uomini. Appare particolarmente interessante la constatazione dell’importanza del ruolo della donna nella società etrusca e la sua innovazione rispetto ad altre culture. Il fatto che le etrusche partecipassero attivamente ai momenti conviviali ,che assistessero ai giochi sportivi ed agli spettacoli e che ,addirittura,sedessero sullo stesso letto dei loro uomini era considerato da altre antiche culture licenzioso ed immorale. In effetti,presso i Romani, dare ad una donna dell’”etrusca”,equivaleva ad accusarla di essere una meretrice. Tuttavia,la realtà dei fatti era ben diversa. La donna etrusca godeva di notevole autorevolezza e questa sua posizione fu probabilmente una delle più all’avanguardia in tutto il panorama mediterraneo. Le etrusche potevano trasmettere il proprio cognome ai figli,anche se questa prerogativa era per lo più riservata a coloro che provenivano dalle classi più abbienti. Nell’epigrafia funeraria etrusca,esse apparivano ricordate per nome a cui si faceva precedere il prenome,il che aiuta a darci un’idea dell’individualità del loro ruolo nella società etrusca. Questa condizione femminile delle toscane,si contrapponeva a quella delle romane,per le quali le epigrafi servivano a ricordarne esclusivamente il nome della gens. Dalle raffigurazioni conviviali che compaiono nelle tombe,si riesce a delineare un quadro abbastanza preciso della cucina etrusca.  Che producessero farina e cereali è noto in quanto è storicamente accertata l’importanza della farina di Chiusi,il cui aspetto era talmente candido da farla adoperare come cipria dalle matrone romane. L’alimentazione non poteva non rispecchiare che la società  e l’economia. Per una ricostruzione del regime alimentare,possiamo attingere agli scrittori antichi che ci raccontarono le usanze etrusche. Sappiamo ad esempio che Catullo fu molto colpito dallo sfarzo in cui vivevano gli aristocratici etruschi,dei loro particolari  usi nella vita sociale,per questo motivo ideò l’immagine stereotipata dell’etrusco come individuo molle e raffinato (Etruscus obesus).Fu grazie al rinnovamento dei costumi, favorito dal nuovo stile di vita,a contribuire alla formazione dell’immagine della mollezza etrusca presso gli antichi. L’usitata scelta di rappresentare mense imbandite corrispondeva alla credenza etrusca che per le anime dei trapassati meritevoli della beatitudine,il premio ultraterreno consisteva nel godimenti di un’eterna ubriachezza. Tuttavia la dissolutezza di alcune convinzioni etrusche non si fermava a questo. Essi erano inoltre persuasi che tale beatitudine consistesse anche nel libero consorzio di ogni senso. Gran parte dei rituali etruschi all’interno della tomba,erano animate dalle loro convinzioni religiose. Un particolare rituale religioso fu il “lettisternio”,che consisteva in un convito che si teneva nel tempio o nel recinto sacro,dove venivano imbandite delle tavole e venivano posizionati i letti per far stendere i devoti che si rimpinzavano di gustose cibare in onore degli Dei. Dallo storico e filosofo Posidonio di Apamea (135 a.C.),apprendiamo che presso gli Etruschi era in uso il prendere parte a sontuosi banchetti due volte al giorno. Egli ci racconta di queste laute mense,tenute in ambienti riccamente arredati con variopinti tappeti e serviti da numerosi servi con indosso sontuose vesti.  Tuttavia l’opulenza non era comune a tutti gli Etruschi. I nobili avevano l’onore di sedere a queste tavole riccamente imbandite e vedersi servire per due volte al giorno pasti che si dividevano in due parti. Iniziavano obbligatoriamente il banchetto con un  uovo,seguivano le carni,cucinate lesse o arrostite,gli uccelli,le oche,le anatre,i fagiani,la porchetta,l’erba aromatica,i pesci d’acqua dolce,di mare ed i molluschi. Durante la seconda parte del banchetto,venivano serviti dolci,frutta di ogni tipo,torte al formaggio,miele ed uova.  In alcune tombe,infatti,spesso era presente l’accoppiata dell’uovo con la melagrana e delle focacce o pizze. Paste di forma assai simile oltre a ricorrere in monumenti etruschi,compaiono su vasi italo-greci,la cui funzione pare dovesse essere sia quella di cibi destinati a banchetti o ad essere oggetto di offerte verso qualche divinità. In realtà,queste preparazioni culinarie non furono ignote nemmeno ai Greci,i quali sappiamo fecero uso di analoghe forme per delle torte (ενθρυπταν) aventi la stessa funzione. Da un punto di vista simbolico,l’accostamento della melagrana ad altri frutti ed all’uovo fu immagine allegorica molto efficace ed assai usata nell’antichità. Basti pensare al loro impiego,ad esempio,nelle pitture pompeiane,o al loro utilizzo presso i Greci,nella cui cultura l’uovo era riguardato come espressione della “resurrezione”. In Etruria dovette avere analogo valore,rimandando,tra l’altro, a riti purificatori ed alle lustrazioni. Inoltre,l’uovo,era considerato simbolo di superstizione,specialmente nel suo impiego quale cibo dedicatorio ad Ecate infernale,assumendo una funzione espiatoria.  La melagrana invece,simboleggiava la “riproduzione”,considerato anche come cibo sacro a Proserpina,la dea degli Inferi. L’uva,poi,era un chiaro rimando a Plutone,specialmente in virtù dei legami che accomunarono questa divinità al dio Bacco. Sappiamo ,ancora, che accompagnavano questi lauti pranzi,con del vino aromatizzato e dolcificato al miele,per rallegrare l’umore dei commensali. Ma questo tipo di alimentazione non era naturalmente destinato a tutti;la dieta giornaliera prevedeva un gran consumo di vegetali utilizzando poco le  carni (specialmente quella di maiale),i pesci ed i molluschi. Fondamentali nell’alimentazione etrusca erano l’aglio e la cipolla,sapori basilari nella loro cucina ed importanti oltre che da un punto di vista nutrizionale,per il loro potere curativo,per le proprietà afrodisiache e stimolanti. Era usanza dei servi consumare cipolle crude condite esclusivamente da un pizzico di sale,mentre i nobili le gustavano cotte. Assieme ad aglio e cipolla,era usato anche il porro,molto più dolce dell’aglio e spontaneo nei loro territori .Utilizzavano anche il prezzemolo,principalmente per insaporire le carni più delicate. Tra le carni più impiegate,si attesta il consumo di suini,ovini e pollame e,non di rado,di carni di cacciagione,come quella di lepre,di cervo,di fagiano eccetera.  Abbondante era anche l’uso di legumi e cereali,principalmente farro,orzo,piselli e fave,con i quali facevano delle saporite zuppe. Molte delle usanze culinarie etrusche si sono conservate nei secoli nelle zone comprese tra l’alto Lazio e la Toscana,come ad esempio la preparazione di sfarinate di cereali per fare frittelle e focacce ma anche la preparazione del pane insipido. Erano altresì grandi consumatori di frutta che consumavano sia fresca che fermentata,con cui facevano dissetanti bevande  a basso tasso alcolico. Il condimento principe della cucina etrusca,era l’olio d’oliva di cui furono importanti produttori ed altrettanto eccellente fu la qualità del loro vino,prodotto che dovettero apprezzare particolarmente i Romani se coniarono il termine vinum dall’etrusco uinom. Che l’olivo fu una delle loro colture più proficue lo attestano i noccioli di olive ritrovati nelle tombe .L’importanza del banchetto nella cultura etrusca,è testimoniato dalla loro particolare usanza di celebrare una cena funebre,detta “agape”,che simboleggiava gli estremi onori agli estinti. Questo convito era quasi sempre rallegrato da una piacevole melodia,attraverso cui si dava un assaggio dell’immagine di godimento riservato alle anime virtuose. Nelle pitture parietali delle tombe,però,molto spesso si tratta di mense domestiche le quali ugualmente testimoniano l’allegrezza sociale,senza tuttavia rimandare ad alcun rituale religioso. Oltre ad informarci sugli usi,le tombe ci fornirono ottimi spunti per una ricostruzione dei costumi degli antichi abitanti di Toscana.  Nello specifico,la maggior parte della ricostruzione si basava su quanto effigiato sulle urne,le quali erano quasi tutte dipinte.. Esse testimoniavano la “moda” dell’epoca nei minimi dettagli. La maggioranza delle informazioni che ci permettono una sommaria ricostruzione dell’abbigliamento etrusco,proviene appunto dalle  rappresentazioni figurate. In alcuni casi,si è potuto azzardare di ricostruire i costumi etruschi attraverso quelli dei romani dei primi secoli,sapendo che questi in più aspetti sociali s’ispirarono agli etruschi. Le informazioni a nostra disposizione,non sono naturalmente sufficienti ad effettuare una minuziosa ricostruzione dell’abbigliamento in quanto,l’effetto del tempo sui monumenti,ha reso difficile una distinzione tra gli abiti usati durante le cerimonie e quelli quotidiani. Sostanzialmente,riusciamo ad evincere che gli Etruschi non furono particolarmente amanti del mostrare nudità ma probabilmente si trattò di una scelta influenzata dai fattori climatici. Uomini e donne dovevano con ogni probabilità indossare tunica e mantello mentre sembrano prettamente etrusche le decorazioni ed i ricami delle loro vesti. Particolarmente interessati furono i loro gusti in fatto di calzature e di copricapi, essendo varia la gamma di questi accessori. Tuttavia sappiamo che era costume degli antichi popoli italici,spogliarsi dei propri abiti ed indossare un manto chiamato veste cenatoria o sindone. Con esso si coprivano parzialmente,lasciando scoperte le braccia per poter agevolmente prendere il cibo. Alcune delle mode entrate a buon diritto nel costume etrusco,sembrano provenire dall’oriente e dal mondo greco ma stando alla personalizzazione di alcuni capi,possiamo desumere che sia esistita una vera e propria moda etrusca. Tra il novero degli accessori che accomunerebbero gli abitanti dell’Etruria con quelli della Lidia ci sarebbero dei sandali neri,raffigurati in alcune pitture tombali,noti anche come “sandali tirreni”. Dalla testimonianza proveniente da un oggetto in bronzo (tintinnabulum), rinvenuto nella tomba bolognese detta “degli ori”,apprendiamo che gli Etruschi si distinsero inoltre nella filatura dei tessuti anche se mostrarono preferenza per stoffe grezze per l’abbigliamento quotidiano,come la lana-generalmente molto colorata- ed il lino. Grazie alle pitture parietali delle necropoli,è stato possibile constatare che gli Etruschi conoscevano ed utilizzavano alcuni strumenti musicali. Essi usarono accompagnare il corteo funebre con il “liricine”,una sorta di lira eptacorde. Inoltre, conobbero con certezza il “lituo”,la cui forma piuttosto ricurva,doveva ricordare il flauto frigio. Una sua variante potrebbe essere la “tuba tirrenica” (Τυρσηνικη σάλπιγξ)menzionata da Eschilo e Sofocle come strumento preferito di Minerva ed Ulisse.Successivamente,l’uso del lituo fu esportato a Roma,dove coloro che lo usavano furono chiamati liticines. La sua funzione  ed il suo significato si legherebbero ad una simbologia augurale ed esprimente pace. Attestata in Etruria la presenza del “tibicine”,chiamato in etrusco “subulo”, riferita a colui che suonava la doppia tibia,strumento che rivelerebbe un’origine-almeno geografica-Frigia. Chi suonava questo strumento,sovente rallegrava sia l’ambiente domestico che sepolcrale,non solo con lo scopo di esortare i convitati a prendere parte alle danze o alle mense triclinari,rendendo meno drammatica la “funebris conclamatio”.  Risulta evidente che il patrimonio proveniente dalle necropoli,costituisse una sorta di codice di decifrazione del popolo. I loro particolari usi,molto spesso legati alla religione,lasciarono ampio spazio alla trattazione di diverse tematiche che,evidentemente,dovettero assumere presso di loro un particolare rilievo. E’ il caso,ad esempio,delle diverse scene familiari.  In molte urne compaiono raffigurazioni di grandi tragedie familiari,come ad esempio quella di Edipo che uccide il padre Laio,o quelle del ciclo tebano,che vedono protagonisti i figli di Edipo ,Eteocle e Polinice. Essi si avvalsero del mito anche in altri oggetti del corredo tombale,come ad esempio nella decorazione del vasellame.   Uno dei soggetti prediletti degli esecutori di monumenti ferali erano i Dioscuri. Sovente sui cassoni mortuali sono raffigurati allegoricamente i simulacri dei due giovani,talvolta anche avulsi dal resto della composizione. In realtà la favola dei Dioscuri,era riguardata dagli Etruschi come una funzionale allusione al passaggio dalla vita alla morte ed anche di quello inverso,dalla morte alla vita. Altro mito relazionabile alla sfera religiosa fu quello delle “amazzoni combattenti”,allegoria del contrasto e del dominio del tempo in cui il sole si fermava nei segni inferiori dello zodiaco. Sui vasi fittili,poi,uno dei temi più frequenti fu rappresentato dai temi conviviali. L’insieme dell’apparato funebre etrusco fu sostanzialmente complesso. Nonostante alcuni rituali possano essere simili a quelli di altri popoli,l’impronta particolare che fu loro impressa dagli Etruschi,permise di differenziarli. Anticamente,ad esempio,era costume che,durante un’occasione funebre,si svolgesse un combattimento di pugilato. Questa dimostrazione aveva lo scopo di onorare la memoria del defunto,per questo si svolgevano presso la tomba o vicino al rogo. Durante questo scontro venivano costretti i prigionieri di guerra a combattere corpo a corpo,quasi come se la lotta fosse per soddisfare un desiderio del  defunto. Da Livio  apprendiamo che questi scontri si chiamarono “ Munus”,probabilmente perché si trattò di azioni in onore dei Mani del trapassato.  Grazie a Livio,apprendiamo che il pugilato fu una delle discipline ginniche in cui gli Etruschi si distinsero,e che,grazie a Tarquinio Prisco,furono istituiti a Roma magnifici ludi. (Equi pugilesque ex Etruria acciti, Livio, L.I.35).  Da fonti antiche scopriamo che la perizia che successivamente acquisiranno i giovani romani nell’ars gladiatoria,l’appresero dagli Etruschi (Gladiatorum origo a re funebri,exemplum ab Etruscis). I pugili che si sfidavano in onore del defunto,avevano sia la testa che il mento rasato,probabilmente per non lasciare appigli all’avversario o,come alcuni hanno sostenuto,in ossequio al rito funebre. In seguito all’agone del combattimento,i due pugili si slacciavano i “cesti” dalle mani e si esibivano in altri combattimenti. Durante queste lotte,i  combattenti etruschi erano completamente nudi –a differenza dei lottatori romani e greci che usarono cingersi i lombi con un perizoma-. Tuttavia l’indole bellicosa degli antichi Toscani,era continuamente mortificata dalla loro eccessiva superstizione. Era tra le loro usanze far splendere le punte delle lance nella notte,in quanto lo scintillio avrebbe richiamato a votarsi a qualche divinità,frequentemente si trattò di Marte. Questo dio fu particolarmente venerato nei primi anni della nazione etrusca probabilmente dall’Etruria,il culto marziale fu ereditato da Roma (alle quali vennero trasmesse anche molte altre usanze etrusche)poiché nell’Urbe spesso si raffigurò Marte con la forma di un’asta. Da un’attenta lettura del patrimonio figurativo delle necropoli,è stato possibile evincere che quella etrusca fu una popolazione d’indole malinconica. Tuttavia quest’atteggiamento era dovuto alle forte pressioni morali che ricevettero dalla loro religione. Esprimevano tale inclinazione nella loro arte servendosi di allusioni figurate,atte a comparire nel cospicuo patrimonio simbolico etrusco. Essi,ad esempio,ricorrevano a figure mostruose per personificare il male e sovente questa raffigurazione del male serviva a spiegare anche alcuni dei fenomeni naturali da loro attentamente osservati come il susseguirsi delle stagioni. Gli Etruschi,in particolare,erano persuasi circa la dannosità dell’inverno per la natura e ,analogamente,per le anime e che il male,prevalesse al sopraggiungere dell’inverno. Di altrettanti elementi mitologici si servirono per raffigurare il passaggio delle anime verso le sfere celesti. Sicuramente la religione etrusca si differenziò parecchio dalla greca,soprattutto perché non mirava a mortificare la morale ma semmai ad erudire il popolo circa i precetti religiosi. In molti casi,le credenziali di un popolo aiutavano la propria immaginazione servendosi di un vasto repertorio simbolico. Legato alla religione è quel simbolismo etrusco del “fallo” presente in alcune pitture tombali di importanti necropoli come quelle di Tarquinia e di Chiusi. L’allegoria specifica di questa forma legata a riti misterici,potrebbe collegarsi all’idea che si tratti di un “amuleto” la cui funzione sarebbe quella di prevenire ingiurie ed oltraggi. Una simile interpretazione la si potrebbe ulteriormente comprendere alla luce del suo caldeggia mento da parte di autori della classicità latina e dei Padri della Chiesa. Sostanzialmente,la rappresentazione del fallo sarebbe relazionabile alla sua lettura come simbolo di “vitalità”,come oggetto rimandante alla “generazione”,in unione con la sua vicinanza ad attributi analoghi la cui tutela era appannaggio degli dei degli Inferi. A conferma di questa opinione,ci sarebbe la testimonianza di Clemente Alessandrino,secondo cui presso Tebe sarebbe stato praticato un particolare culto bacchico dove si personificò il dio con la forma fallica. A maggior rinvigorimento di questa convinzione,particolarmente interessante sarebbe quanto riportatoci da Diodoro Siculo,il quale raccontò che altra denominazione dell’Itifallo fu Tychon, o figlio di Tyche (la “Fortuna”). Quest’affermazione avrebbe,inoltre,collegamenti con l’invocazione αγαθη τυχη,epiteto che rimanderebbe alla Terra (Gea),ritenuta dispensatrice ed amministratrice di tutto ciò di cui necessitavano gli uomini,nonché responsabile della vita e della morte delle creature. Dunque,nel suo duplice simbolismo,il fallo,racchiuderebbe in sé tanto l’idea di “potenza generatrice” che di elemento rimandante alla “morte”. In virtù di questo dualismo,si avvicinerebbe all’idea dell’”omphalos” delfico,concetto religioso consistente in una modifica della forma fallica allo scopo di moderarne l’oscenità. Tuttavia ,attraverso la vasta gamma allegorica,gli Etruschi,riuscirono a trasmetterci interessanti informazioni sugli dei che conobbero. In una pittura tombale ad esempio,essi raffigurarono Caronte. Questa divinità fu frequente nelle loro pitture,spesso alata ed,in alcuni casi,con la carnagione turchina,la quale simboleggiava lo stato di putrefazione del corpo umano dopo la morte. Sovente,tra i motivi parietali compare una biga,che lascerebbe ravvisare il cocchio funereo in procinto di avviarsi verso le regioni eterne,accompagnando l’anima del trapassato alla sua eterna dimora. Tra le allegorie dipinte nelle tombe,ridondante è quella del corteo funebre,dove è possibile farsi un’idea di come si svolgesse grossomodo la processione. Era costume etrusco,mandare in capo al funebre corteo due ufficiali,una sorta di “apparitores”romani –il nome generico che veniva dato alle diverse classi di ministri di pubblici magistrati-,seguiti da araldi e da musicanti. Spesso,poi,la simbologia funebre lasciava il posto a scene di estremo realismo,specialmente quando si trattava di raffigurare la carriera militare della persona a cui la tomba era dedicata. Frequente allegoria nei monumenti etruschi è costituita dalla rappresentazione di rettili,nella maggior parte dei casi di serpenti. Data la loro frequenza nei monumenti etruschi,possiamo supporre che la loro simbologia sia legata al ruolo di guardiani del sepolcro,per prevenire ogni tentativo di incursione profanatoria. Al fine di scoraggiare eventuali profanazioni,gli etruschi si servirono spesso di diversi demoni ma anche di simboli come il già precedentemente citato “fallo”. Spesso nelle camere mortuarie,era presente una stele,o colonnetta,sormontata da un vaso con duplice ansa,simboli che si riferiscono all’intero complesso del monumento sepolcrale. Alcuni esempi in proposito,li abbiamo attraverso le suppellettili antiche,soprattutto nei dipinti vascolari,ma anche grazie alla testimonianza degli scrittori. Talvolta a rafforzare l’immagine del segno sepolcrale,gli artisti Etruschi dipinsero una scimmia sulla sommità della stele. Qualche studioso vide nell’allegoria della scimmia,un richiamo al mito delle Gorgoni. Secondo altri,poi,l’animale sarebbe uno “scherzo” dell’artista ma questa teoria è del tutto inverosimile, in quanto non coincide con le pratiche dell’arte etrusca in generale,secondo la quale ogni cosa che è introdotta in una raffigurazione,ha sempre uno scopo,un ruolo,o reale ,o simbolico. Dunque la scimmia,deve necessariamente essere stata un simbolo,che si legherebbe con delle leggende egizie. Presso gli Egizi,infatti,la scimmia o cinocefalo,era considerata allegorica del “tempo”,quasi a simboleggiare d’essere principio e fine di tutte le cose,ed era,altresì,il simbolo del dio Thot. Essa era considerata,per questo motivo,un “essere divino”,consigliere di Osiride,a cui avrebbe insegnato a pesare le anime. Inoltre,l’animale avrebbe anche assistito l’anima e le avrebbe schiuso le porte del cielo. Nella religione egizia,le scimmie cinocefali,simboleggiavano i “guardiani sagaci” o “abili” cui il Signore si affidava per sorvegliare i suoi nemici. Senza continuare oltre alla ricerca di analogie simboliche,è evidente che ,anche per gli Etruschi,la scimmia rappresentava un simbolo sacro-mortuario,la maggior parte delle volte inerente alla tematica del “tempo”,quasi a ricordare il passaggio compiuto dal defunto verso l’eternità dove l’avrebbe atteso il giudizio e la condanna divina per gli atti commessi in vita. Simbolici del giudizio che il trapassato avrebbe avuto nell’aldilà ,sono le Furie ,i vari Caronti e gli altri demoni infernali,il cui ruolo sarebbe stato quello di assistere nelle ultime ore di dolore,coloro che la morte stava strappando alla vita. Tuttavia,è particolarmente interessante il ruolo degli animali nella simbologia etrusca. Alcune volte,sulle pareti sono apparse pantere ma più frequentemente i gatti ed i volatili. Queste due ultime specie,costituirebbero un ricordo domestico e familiare,mentre la pantera sarebbe una velata allusione al dio Bacco. La raffigurazione del pollo,invece,era simbolo di buon augurio. Tra le rappresentazioni degli animali,particolare rilievo simbolico assumono gli uccelli siderei,i quali avrebbero indicato la via lattea percorsa dalle anime verso le sfere celesti. In alcuni casi,gli animali si sono uniti alle rappresentazioni di dei. A volte appare nei monumenti Mercurio con un ariete sulle spalle,soprannominato “Crioforo”,il cui significato sarebbe quello di rappresentare la congiunzione del Sole con il segno dell’Ariete per cooperare allo sviluppo della generazione. Infatti,nel cerimoniale religioso degli idoli,presso i toscani era frequente che l’ariete o lo stesso Mercurio venissero effigiati su delle patere libatorie,in onore al defunto. Talvolta,il corso dei secoli,ha fatto sì che alcune immagini allegoriche si siano confuse con altre. Questo è avvenuto,ad esempio,al Charun etrusco,confuso con l’Orco,figura che,nei tempi arcaici,rappresentava un infernale ministro di morte. Essi,al fine di spaventare gli avventori,usarono dipingere sovente nei sepolcri delle figure larvate,simboleggianti del male personificato in una creatura mostruosa (come fecero ad esempio gli Egiziani con Tifone). Gli Etruschi,credevano che all’inizio dell’autunno,fosse il Male a prevalere e lo raffiguravano a volte alato,indicando che la morte avrebbe raggiunto l’uomo nonostante i suoi sforzi di fuggire. Il Minotauro rappresentato nelle tombe,alludeva ai centauri celesti piuttosto che al figlio di Pasifae,ed è per questo motivo che è congetturabile che la dottrina delle anime etrusca si leghi al mito dei centauri autunnali. Sovente,i toscani usarono allegoricamente anche dei fiori. Nel caso dell’anemone,ad esempio,esso equivaleva al passaggio del sole ai segni inferiori e,quindi,al sopraggiungere dell’inverno. Questa stagione era particolarmente infausta per gli Etruschi,poiché voleva dire la morte della natura,la cui decadenza si rifletteva sulle anime. Altra allegoria della negatività invernale,era rappresentata dal sole iemale,talvolta personificato in un mostro con la testa gorgonica.
DAL SIMBOLISMO ALLA SUPERSTIZIONE :LA DOTTRINA DEI FULMINI
L’apparato allegorico etrusco,rifletteva il background religioso e superstizioso che fu proprio degli Etruschi. Essi tra le loro cognizioni,ebbero un’interessante dottrina dei fulmini che,seppure attestata già presso altre popolazioni,si rese unica,grazie al carattere che i toscani vi attribuirono. Quella etrusca fu un po’ diversa da quella dei Greci in quanto per i primi se il fulmine era scagliato con la mano sinistra era simbolo di buon auspicio mentre per i secondi era il contrario. Plinio ci riporta che gli Etruschi ebbero nove divinità dei fulmini,anche se si conoscevano solo i nomi di otto :GIOVE,GIUNONE,MARTE,MINERVA,VEIOVE,SUMMANO,VULCANO e SATURNO. Fra le divinità atte a scagliar fulmini,probabilmente vi fu anche Nettuno. Sempre da Plinio,apprendiamo che i fulmini scagliati erano di 11 qualità. Giove  ne aveva di 3 tipi,mentre furono attribuiti a Marte quelli in grado di produrre incendi. Fra gli dei fulminigeri ,vi fu forse anche Bacco Libero,in onore del quale diverse popolazioni italiche celebrarono -con qualche differenza di cerimoniale e rappresentanza- la festa detta Liberalia.  Sappiamo che probabilmente presso di loro Summano fu il fulminatore notturno,considerando la veridicità di quest’asserzione dal fatto che essa fu tale anche per i Romani che,com’è noto,derivarono la loro erudizione sacra dagli Etruschi. Secondo Plinio,grande importanza ebbe per gli Etruschi,il culto della dea Fortuna,ritenuta dispensatrice di tutte le cose. Quest’osservanza cultuale per la Fortuna,fu un enigmatico rito,con ogni probabilità analogo a quello dei misteri eleusini. Gli eruditi in mitologia si persuasero che l’importanza che ebbe presso i Toscani il nume infernale conosciuto col nome di Manto,fu pari a quella che fu considerata la sua consorte,una dea d’entità spaventosa e temibile,corrispondente grossomodo ad una contrapposizione della fortuna. Macrobio riferisce che il nome di questa regina degli Inferi era Mania. Il nome forse fu derivato dall’equivalenza di questa dea con Mean (Mania,o Manua,o Manuana). Anticamente,questa dea era considerata così mostruosa,da avere presso di loro un simulacro che si appendeva agli usci per evitare incursioni da parte di male intenzionati. Successivamente,il terrore destato da questa dea,servì solamente a spaventare i bambini. Presso gli antichi vi fu una particolare credenza secondo la quale chi abbandonava la vita mortale,dovesse vedere Manto e la sua infernale consorte,la dea Mania. Il nume infernale,venne dagli Etruschi appellato in diversi modi. Uno di questi fu Februo ma Manto,rimane sicuramente la denominazione più frequente. Zoega suppose che il Manto etrusco abbia corrispondenza con il Radamanto egizio,nel cui nome era contenuta la parola ament che significava inferno. Il Nume rappresentava il dolore,la morte ed era inoltre,la personificazione delle ombre dimoranti in luoghi tenebrosi. Per questa sua simbologia,forse,fu chiamato anche Vedio,l’avverso Fato.  La tradizione sacra romana ,che già in precedenza dicemmo derivata da quella etrusca,voleva che i Mani salissero nel mondo superiore tre volte all’anno : il 24 agosto,il 5 ottobre e l’8 novembre. La festa dei Mani e l’annuale visita alle tombe,costituiva un omaggio alla memoria dei trapassati.  Erano queste date,giorni di festa,in cui era consentito intraprendere e trattare qualsiasi affare. In quei giorni dell’anno che secondo la credenza popolare si pensava che le anime venissero a visitare la terra,venivano celebrati riti occulti e misteriosi. Attraverso la dottrina degli dei fulminanti,apprendiamo che l’insieme della comunità divina,presso gli Etruschi ebbe il nome di Aesar. In questo fitto stuolo di deità è possibile effettuare una distinzione e notare che alcune divinità furono chiamate  “dei velati”,una sorta di ministri di Giove,consultati dal nume supremo quando bisognava manifestare attraverso un fulmine,un cambiamento. Tuttavia,questa sottoclasse divina non ebbe un ruolo attivo nella teogonia etrusca ma fu ritenuta solo “partecipante” alle importanti mutazioni dei tempi. Si credeva,inoltre,che essi dimorassero nelle regioni centrali del sacrario del cielo. I nomi ed il numero di queste deità rimasero avvolti dal mistero ma da Marziano Cappella apprendiamo che nelle dottrine degli aruspici etruschi,era prevista una divisione del cielo in sedici regioni,le quali erano abitate dagli dei. La prima di queste regioni era quella in cui dimoravano Giove con gli dei velati. Interessante a tal proposito è l’asserzione del Muller ,il quale riassunse la favola degli dei velati dicendo che :”come all’antico greco,così al Tusco appariva la divinità quasi un mondo vivente,emanata da una profondità oscura ad una forma decisa e costante. Il fondo più remoto di questo mondo,e perciò il più distante da tutti i pensieri e da tutte le cure lo rappresentavano gli dei velati,che non agivano su questo nostro mondo se non in alcuni momenti delle grandi catastrofi. Dalla lor serie viene Giove come l’essere che domina il mondo e vive in esso.” Inoltre,le deità etrusche o erano “generali”,e quindi venerate da tutte le città della confederazione etrusca,o “particolari”,ossia venerate da l’una o l’altra città in particolare. Alla prima classificazione,appartenevano,oltre a qualche idolo autoctono, le più importanti divinità introdotte dai Pelasghi,come ad esempio Giove,Giunone e Minerva i quali ebbero ciascuno il loro tempio ed il loro culto nelle città regolarmente organizzate. Nella dottrina etrusca,Giove ebbe un “consiglio divino”,costituito da sei divinità maschili e da sei femminili. In questo modo,si associarono a Giove delle altre deità,quasi a formare un’ulteriore gerarchia sacra,le quali cooperarono con lui nel governo dell’universo,svolgendo il ruolo di ministri. Questi furono detti “dei Consenti” e “Complici” per la loro attitudine ad essere consenzienti e consapevoli del ruolo affidato loro dal signore degli dei ma non ci è stato tramandato il loro nome. Tuttavia,essendo questi dei appartenenti ad un ordine inferiore,vennero ritenuti più vicini alla natura che non al genere umano. In virtù di queste loro caratteristiche furono considerati “mortali”,ossia soggetti a vivere un’esistenza limitata dal tempo. Va però ricordato,che gli “dei Consenti”,erano una sorta di “intermediari” di Giove. Il nome etrusco di quest’ultimo era Tinia e ricopriva un ruolo fondamentale nella teogonia etrusca in quanto era in lui la natura che tutto produce,ed era altresì ritenuto colui che dirige e conserva l’Universo. Talvolta agli dei Consenti,fu affibbiato il nome di “dei potenti” e,presso altri di Cabiri,dei che in Greci furono tributati con un misterioso culto. In Etruria,i Cabiri entrarono nell’immaginario collettivo come una sorta di pigmei. Questa credenza ben concorda con l’opinione che vedrebbe esser Efesto (o Vulcano) la massima divinità del culto cabirico e secondo cui gli altri dei sarebbero sue emanazioni. La raffigurazione di queste deità come pigmei,si spiegherebbe in virtù del fatto che essi ebbero attitudine di “ministri” e per questo effigiati fanciulli. Inoltre,questa raffigurazioni giovanili,troverebbero spiegazione nel fatto che avendo un aspetto venerando,corrispondessero ai “camilli” etruschi,i quali erano appunto fanciulli. I Cabiri,ricoprendo il ruolo di deità della salute,furono sempre onorati congiuntamente e mai singolarmente. Il nome stesso,presumibilmente di origine fenicia,pare che significasse “grandi”,”potenti”,”forti”. Sembrerebbero esser stati  sette questi dei,numero corrispondente a quello dei pianeti. Tuttavia ,nella religione dei Toscani,la distinzione della gerarchia divina in dei velati e dei consenti,si riferirebbe alla natura ed alla vita stessa degli dei. Nella disciplina sacra degli Etruschi,vi sarebbe posto anche per i Penati,che qualche erudito ci riferì fossero di quattro classi : quelli di Giove,alcuni di Nettuno,altri dei inferi,degli uomini. Anticamente,i Penati ,erano degli dei rappresentanti una forza personificata,i quali provvedevano al benessere degli uomini. Tra l’altro,queste divinità,avevano un’origine umana.
In una teogonia così ben organizzata,l’imput religioso dovette giocare un ruolo molto importante nella formazione di queste loro particolari credenze. E’ bene spendere ,a questo punto,qualche parola sulla religione etrusca.
LA RELIGIONE ETRUSCA

Da sempre l’uomo,spinto da un comune desiderio di vivere in eterno, ha trovato il modo di rinforzare questa credenza,stabilendo l’immortalità della sua anima. Tuttavia questo stato di eternità attribuito all’anima,aveva come effetto il desiderio di essere resi eterni da un’entità superiore,da un Dio che si ponga al di sopra della natura stessa,che dia conforto durante i travagli del corpo e dell’anima. Se è vero che questo senso comune è insito nel genere umano,non poté essere estraneo ai primi abitanti della Toscana il ricorrere all’uso personale della Provvidenza Divina. Seppur essi provennero da terre lontane,dovettero portar seco le  conoscenze religiose proprie della terra da cui provennero. Tuttavia la teologia arcaica non fui ricca di istituzioni cerimoniali,di riti e di tutti i precetti che ebbero successivamente. La commistione di riti e cerimoniali,coinvolse ogni singola nazione,dando luogo da un arricchimento dell’apparato religioso grazie all’aggiunta di nuove istituzioni cultuali a quelle già esistenti.
I futuri abitanti dell’Etruria,quasi certamente incontrarono gli Atlantidi,popolazione che si credeva avesse abitato la regione caucasica,conosciuta come il luogo leggendario dove fu legato Prometeo. Se gli Etruschi provennero, come molti sostengono, dall’Asia Minore,passati per il Caucaso dovettero contaminare le loro credenze religiose con il “sabeismo”-dottrina religiosa preislamica,caratterizzata dal culto degli astri- praticato dai popoli atlantidi. Diodoro Siculo confermerebbe che gli Etruschi ebbero affinità religiose con quei popoli,deificando allegoricamente le prime cause della natura visibile. Essi infatti,adoravano ed avevano timore dei fenomeni naturali ,come del resto fecero molte altre antiche popolazioni,reputandoli al pari di divinità creatrici. Il solo fatto di rendere culto verso qualcosa,li rese idolatri. Naturalmente per idolatrare,c’era bisogno del feticcio da adorare. Gli occhi del popolo volevano un segno visibile della presenza del divino nelle sue manifestazioni. A questo scopo servì la figura del “sacerdote”-particolarmente importante nella superstiziosa cultura etrusca-il quale per spiegare la sua funzione divina,ebbe bisogno di essere visto egli stesso un creatore. Interessante il rimando alle pratiche religiose attribuite ai Pelasghi,secondo cui il sacerdote creatore aveva personificato in un Erme la forza vitale della natura. E questa è una testimonianza interessante in quanto sia da Erodoto che da Cicerone apprendiamo che Erme o Mercurio,era la divinità a cui era attribuito il mostrare l’eccitamento della natura alla prolificazione. Nella religione arcaica,dunque,veniva a formarsi una sorta di patto consolidato tra gli uomini e la divinità. L’aspetto materiale che ebbero queste divinità presso di loro possiamo desumerlo da un disco di bronzo manubriato,detto “specchio mistico”,sul quale erano incise a graffio alcune delle loro deità più importanti. Su di esso è raffigurato un giovane con il corpo,la testa,le braccia e le gambe  volte in più sensi per modo,il quale occupa l’intera area del disco. Questa figura,inoltre,ha il corpo girato in un senso e la testa in un altro,le braccia poste una in alto e una in basso e le mani rivolte una verso il cielo e l’altra verso la terra . Le gambe,poi,sembrano essere impegnate in un lungo passo. In questo disco,sarebbe rappresentato anche il mare,vista la presenza di pesci sulla superficie dell’oggetto,probabilmente a simboleggiare l’intero globo,sia nelle sue parti acquose ,che terrene. Attraverso questa raffigurazione virile,comprendiamo che gli argomenti etruschi sul Creatore ed il Creato,portarono alla formazione di un idolo,denominato Fato,ritenuto lo “spirito vitale” che,disseminatosi fra gli esseri,diede vita all’intero mondo. Tuttavia,la raffigurazione virile del disco bronzeo,oltre a rappresentare il “Fato”,esprimerebbe anche l’”anima” e lo “spirito”. Proprio grazie al suo essere “spirito”,mostrerebbe il suo universale dominio e la sua diffusione in ogni dove. L’innato desiderio dei popoli di vivere eternamente e di superare tutti i mali grazie ad un’entità superiore,portò alla personificazione di questa forza in un fantasma che si contrapponeva al nume primario,costituendo una sorta di ministro di morte. Giunti i Pelasghi in Italia,non trasmisero ai primi abitanti della Toscana un vero e proprio patrimonio mitologico,ma si contentarono di portar loro tradizioni isolate,popolari,provenienti dal loro territorio d’origine. Tuttavia, la figura di Giove fu attestata in Toscana solo dopo l’arrivo dei Pelasghi e non dovette arrivar loro da solo ma accompagnato dalla conoscenza di altri numi presenti nel culto pagano. I primi abitatori della Toscana,infatti,dovettero attingere le loro cognizioni religiose, direttamente dal paganesimo,ereditato uno stuolo di divinità che furono comuni a varie antiche popolazioni. Oltre a Giove,i Pelasghi penetrati in Italia,introdussero il culto di Giunone,che fu conosciuta anche come “argiva” poiché fu portata dai coloni pelasghi provenienti dall’Argolide. Gli Etruschi ebbero il culto di Apollo e fu caro specialmente a quei Pelasghi che si stanziarono nell’Etruria superiore,sul versante adriatico,i quali pare che inviassero delle decime a Delfo in onore del dio. Sui nomi che queste divinità ebbero,è interessante avvalersi di una testimonianza antica secondo cui i Pelasghi avrebbero consultato uno dei più antichi oracoli della Grecia,quello di Dodona,chiedendo se potevano utilizzare i nomi di divinità praticate in Egitto e l’oracolo rispose affermativamente. Ne risultò un’adozione della nomenclatura sacra che ,successivamente,avrebbero condiviso con Greci ed Italiani. Questo “corpus” divino,rappresentava sostanzialmente,la “natura” e le sue parti. Tra gli dei più antichi del patrimonio pagano italico, vi furono Giano e Saturno. Prima di “italianizzare” Giano,converrebbe secondo gli archeologi,di spogliarlo da tutta una serie di elementi che lo connotavano,la cui provenienza era essenzialmente fenicia. Gli Etruschi lo denominarono “cielo” e gli fu attribuito l’ essere guida delle anime verso le regioni superiori ma fu anche ritenuto mediatore tra gli uomini e le divinità. Su questo dio si è particolarmente dibattuto,in quanto molti autorevoli pareri lo ritennero pretto romano. Esiste a tal proposito una leggenda secondo cui i Romani,impegnati in lotta contro gli Etruschi,avrebbero trovato nei pressi di Faleria,un idolo di Giano con quattro facce. Varrone riferì che,siccome Giano presso gli Etruschi era “Cielo”,le quattro facce avrebbero simboleggiato i quattro punti cardinali del tempio celeste. Lo scrittore,inoltre,si mostrò convinto che il Giano dei Romani,poiché era raffigurato con due facce,contenesse due differenti divinità che sarebbero state una il dio tusco del cielo e l’altra il dio delle porte latino. Infatti,presso i latini,il nome del dio si legava al simbolo del “passaggio” attraverso la Janua. Una testimonianza interessante a tal proposito,è quella di Ovidio,il quale ci racconta che le due facce del nume avrebbero simboleggiato le due qualità del tempo : passato e futuro. Inoltre esse avrebbero incluso anche il presente,facendo assumere al dio la connotazione di “dio del tempo” e per questa ragione,fu spesso confuso con Saturno. La confusione con Saturno fu possibile in quanto anticamente,si credeva che l’introduzione di questo nume fosse stata opera in un condottiero di un popolo primitivo,denominato Janus perché ritenuto proveniente dall’antichissima popolazione degli Ionii.  L’importanza,tuttavia,di Giano non riuscì mai ad essere messa in discussione. La sua importazione sul territorio italiano,comportò,tra l’altro,l’introduzione di alcuni usi sociali. Macrobio ci riferisce che il nume,sovente,era raffigurato avente il numero 300 nella mano destra ed il numero 65 nella sinistra. Questa distribuzione numerica,avrebbe rappresentato i 300 giorni di luce ed i 65 di tenebre,o di assenza di sole per i popoli settentrionali. Questa spiegazione è particolarmente interessante ai fini di una connessione tra le prische popolazioni italiche e quelle del Settentrione.  Non si può dubitare che fu grazie ai Pelasghi provenienti dal Nord della Grecia che la loro religione penetrò anche nel nord dell’Italia,assieme ai loro riti,ai loro misteri ed alla loro poesia. Al culto pelasgico,fu aggiunto un cospicuo numero di altre credenze,dai Fenici. Si ritiene che da questo popolo provenne l’introduzione di Dioniso (Bacco),decapitato dai fratelli e seppellito alle falde del monte Olimpo. I fratricidi,conosciuti anche come Coribanti o,secondo altri,Cabiri,misero in un cesto le membra di Dioniso inerenti alla “generazione”,fuggendo nella Tirrenia dove si spacciarono per mercanti. Lì,donarono ai Tirreni l’orrida cesta ed erudirono gli abitanti di quelle terre circa una nuova religione. Questa oscura pratica mistica,prevedeva che la natura provvedesse ad una feconda prosperità grazie all’unione di due potenze contrarie,formate da un principio attivo e da uno passivo.
Al di là della loro primitiva provenienza,i primi insediamenti umani in Toscana,mostrarono sin da subito la loro inclinazione per il culto degli astri e degli elementi della natura,senza presentare alcuna traccia dello spiritualismo caratteristico della religione dei loro avi. Questa era,sostanzialmente,anche la principale differenza tra la religione loro e quella dei Greci. Gli Etruschi ebbero un fitto stuolo di deità,di cui alcuni furono esclusivi della nazione. Tuttavia,i dati a nostra disposizione,non ci consentono una completa ricostruzione di ogni singolo dio,in quanto di alcuni conosciamo a malapena i nomi. Le più importanti furono :Giunone,dea al quale era tributato culto a Perugia,Veio e Faleri;Minerva,conosciuta in Etruria con i nomi Menerfa e Murfa,fu omaggiata presso di loro e il suo culto fu poi trasmesso ai Romani. Vertunno,il cui culto fu noto anche ai Romani,conosciuto anche come “dio dell’autunno” per la leggenda che si lega al suo nome. Egli fu chiamato Vertunno per la conversione del sole al solstizio,si dice che ricercasse Pomona –dea dei  frutti dei giardini-e che la riuscisse ad avere solo quando ella invecchiò. Dall’unione di queste due divinità nacque Caeculus,il loro figlio cieco,il cui nome deriverebbe dal tenebroso inverno. Altra eminente divinità etrusca fu Norzia,una dea della felicità,il cui nome etrusco andrebbe tradotto come Fortuna. Essa ricevette un importante culto a Volsinio. Nella teogonia etrusca comparve anche Nettuno. Leucotea fu conosciuta anche come Matuta. Gli Etruschi conobbero e venerarono anche Vulcano,noto col nome di Setlans. Ebbero anche un culto di Saturno,specialmente nella città di Aurinia,successivamente rinominata Saturnia. Il Marte che venerarono gli Etruschi,diede il suo nome al mese di Marzo. Un culto di Giano si registrò in Etruria ma ebbe quasi sicuramente un altro nome che a noi non è noto. Essi ritennero tra le loro deità Veiovis o Vedius,nomi sicuramente latini ma entrambi designarono una perfida divinità. Tra gli dei fulminigeri etruschi,Summano fu probabilmente il più prolifico. Manto fu il dio dell’Inferno,equiparabile al Dis Pater dei Latini. Tra le deità femminili etrusche vi fu Cerere,la quale appartenne alla schiera dei Penati. Volumna o Voltumna fu presso di loro la divinità del tempio federativo dei dodici stati. Tuttavia,già in antichità,la tematica religiosa portò spesso alla confusione delle varie dottrine tra un popolo ed un altro e fu per questo motivo che spesso alcune divinità Sabine,Romane e Greche furono spacciate per etrusche.  Tra le divinità inferiori degli Etruschi fu posto Tagete,ritenuto il sacro rivelatore delle loro discipline religiose. La leggenda vuole che le sue rivelazioni furono raccolte da colui che le ascoltò e successivamente esposte in versi dalla ninfa Bigoe (o Bacchete). Ai tempi di Lucrezio si leggevano ancora con ogni probabilità,i testi sacri etruschi,veri tesori di sapienza,che essi chiamarono aruspicini,acherontici,fulgurali e fatali e che scrissero da destra a sinistra come loro usanza. Gli antichi toscani ebbero modo di modellare il loro patrimonio mitologico su quello dei Greci,attribuendo ai singoli eroi un carattere nazionale. E’ il caso di Ulisse,ad esempio,il quale,stando a quanto ci riferì Teopompo,una volta giunto ad Itaca ed informato sulla situazione in cui si trovava la moglie Penelope,si imbarcò nuovamente alla volta della Tirrenia,stabilendosi in Gortinea dove morì. A riprova di questa credenza,vi sarebbero degli epigrammi aristotelici sui personaggi omerici,due in particolare inerenti alla figura di Ulisse,in cui si ricordava della sua sepoltura in Tirrenia. Anticamente,in molti sostennero che la tomba dell’eroe di Omero si trovasse presso Perge,situata sul monte Gortineo. Gli eruditi sostennero che il monte Pergeo si trovasse nei pressi di Cortona,aggiungendo che Gortyn sarebbe l’ellenizzazione di Cortona. L’Ulisse tirrenico,si chiamò Nanos,che significherebbe “errante” e si sarebbe stabilito coi suoi uomini in quelle terre. L’eroe toscano sarebbe del tutto analogo al corrispettivo greco. In realtà la storia della Toscana ci ricorderebbe un Nanao,condottiero dei Pelasghi in Etruria. Queste favole,sarebbero state gelosamente custodite dagli Etruschi almeno fino a quando non si insinuò nella Penisola il gusto per le arti elleniche. Che siano stati gelosi dei loro miti,inoltre, lo si capisce dal fatto che essi rappresentarono maggiormente Ulisse che Tagete,in quanto l’eroe omerico sarebbe stato allusivo di quel condottiero di cui andarono tanto fieri,Nanao.  Risultano,iinvece,più intricate le tradizioni di Corito inerenti a Cortona,menzionato nell’Eneide di Virgilio e,in generale, tra le motivazioni della venuta di Enea in Italia. Corito è considerato un eroe cortonese,i cui figli Dardano e Iasio,dall’Italia partirono uno per la Troade e l’altro per Samotracia.  La maggior parte degli studiosi sostiene che ,in realtà ,Corito sia l’antico nome di Cortona,probabilmente di derivazione pelasgica. Tuttavia, questa pare essere nient’altro che una leggenda ellenica  sulla città di Cortona. Le relazioni tra i Greci e gli Etruschi troverebbero il loro snodo cruciale nella città di Pisa. Esisteva anche una Pisa nel Peloponneso che le tradizioni mitologiche volevano esser stata fondata da Pelope,fondatore,tra l’altro,anche della Pisa etrusca. Infatti anche Pelope fu nazionalizzato nel patrimonio mitico dei toscani e nelle loro opere. Inoltre,era credenza antica che anche Epeo avesse condotto una colonia di Focesi in Etruria,la quale ,stanziatasi nell’agro pisano,sarebbe stata fondamentale per la nazionalizzazione toscana dell’eroe greco.  Appropriazioni di miti stranieri e conseguenti nazionalizzazioni,si verificarono anche in altre province dell’Etruria. A Tarquinia,ad esempio,si attestava un’interessante leggenda circa la sua fondazione ad opera di Tarconte. Egli sarebbe,tra l’altro,il rappresentante dei lucumoni locali. Le leggende etrusche arcaiche sostenevano che fosse stato Tarconte a fondare le dodici città al di là ed al di qua dell’Appennino. Il personaggio di Tarconte fu molto importante nella storia mitologica toscana. Egli sarebbe stato destinato da Tirreno,figlio di Ati,a fondare le dodici città. Nel periodo di maggior fortuna della nazione etrusca,fu inequivocabile il nesso tra il Tarconte etrusco e l’edificazione delle dodici città con la colonizzazione lidia dell’Etruria. Analogamente all’appropriazione tarquiniana del mito di Tarconte,si registrò a Faleri una favola simile,dove l’eroe cittadino sarebbe stato identificato in Aleso. La mitologia individuerebbe in lui il figlio di Nettuno o un suo genio. Sappiamo esser stata Faleri,città votata alla dea Giunone,alla quale tributarono onorificenze sullo stile degli Argivi. Probabilmente fu proprio da Argo che essi importarono il mito di Aleso. La fitta trama mitologica etrusca,aiutò i moderni a ricostruire una gran quantità di informazioni sulla loro religione. Tuttavia,per conoscere ancora meglio un popolo,oltre a farsi un’idea dei loro costumi,è altrettanto importante conoscere come essi gestirono gli istituti civili,come organizzarono il loro potere.
L’INFLUENZA DELLA SUPERSTIZIONE SULLA LEGISLATURA E SUL GOVERNO ETRUSCO
Quando la nazione etrusca uscì dall’arcaismo,essi organizzarono i loro istituti civili in maniera teocratica,lasciando gestire l’insieme dell’apparato civile dai loro sacerdoti.  Essi impressero alla loro reggenza un’impronta malinconia,  garantendosi il rispetto dei sottoposti ,soggiogandoli con la loro risaputa superstizione. Nel territorio italiano,le prime attestazioni di unioni civili,si verificarono in concomitanza dell’introduzione nella penisola dei conviti. Questi conviti,riunirono persone che successivamente avrebbero ricevuto leggi e culti comuni. Sin dagli albori della storia etrusca,si delineò il potere quasi esclusivo dei sacerdoti,che si tradusse nell’attribuire ad una legge divina il ruolo di unica norma e fondamento della vita civile. Il governo confederato dell’Etruria,prevedeva che essa fosse divisa d’ordinario in dodici corpi civili,i quali erano legati da un’alleanza,i cui patti erano alla base della loro coesione. Gli autori latini,definirono i primi magistrati destinati a reggere ciascuna città,”re”,tuttavia essi furono noti col nome di lucumoni . Questa carica ,rivestiva il nominato di eminenti onori civili. Uno di questi importanti personaggi,veniva incaricato di gestire  la totalità dei poteri in guerra. Secondo Strabone, fin quando la nazione fu organizzata in confederazioni riuscì a mantenere stabile la sua potenza ma una volta che questo tipo di governo iniziò ad indebolirsi,il dominio toscano iniziò ad avviarsi ad un lento declino. Sostanzialmente,il governo federativo,garantiva alla nazione una politica serena,pacifica ed era poco incline a strategie belliche ed espansionistiche. Il potere,che in tempi di guerra era detenuto da un unico capo,permetteva alla nazione di essere ambiziosa,di curare propri interessi e di farsi grande,senza,però,perdere mai di vista la virtù ed i buoni propositi che distinsero questo popolo. Questa loro indole incline alla moderatezza,fu probabilmente,la loro pecca maggiore in quanto non sarebbe stato difficile con un governo del genere,abusare del potere regio. Infatti,la scelta toscana della confederazione,era direttamente proporzionale ai loro usi e soprattutto ai loro costumi. Ogni città appartenente a questa lega,sapeva benissimo che il controllo del potere era detenuto da una ristretta cerchia di uomini provenienti dalle classi sociali più abbienti. Esisteva,dunque,una sorta di “feudalesimo” sociale,in cui il popolo era soggiogato,da un lato dalla religione,che in una nazione teocratica aveva gran peso,e dall’altro dall’assoggettamento alla classe dirigente,all’aristocrazia. Del resto,era usanza abbastanza frequente presso gli antichi,che i legislatori soggiogassero la plebe e tenessero unite le alleanze con la religione. Proprio grazie alla religione il popolo veniva indottrinato sugli usi civili,veniva istigato alla virtù ed al coraggio e venivano legittimati i sacrifici pubblici. Gli istituti civili,in Etruria,erano considerati legittimati dalla volontà divina e non dal consenso popolare. L’insieme di quegli oggetti sacri che presso gli Etruschi furono chiamati Rituali,erano i principali mezzi attraverso cui si sanciva la pace all’interno della confederazione,era la condicio sine qua non che permetteva la pace tra le nazioni. La moderatezza del governo toscano,non permise tuttavia,che le insolvenze passassero impunite. Sappiamo esser stata l’Etruria  una nazione in cui il diritto pubblico,il privato ed il sacro,camminarono sempre di pari passo,furono tra loro inscindibili. La concordia tra la popolazione fu mantenuta mediante il culto religioso,il cui ruolo fu di essere sussidio del diritto popolare. Ogni città della confederazione etrusca,ebbe l’istituzione di riti solenni che ebbero l’oneroso compito di unire le genti in nome della comune religione. Infatti,la lega etrusca,consolidò l’unione tra le sue genti  mediante il fraterno vincolo religioso. La leggenda racconta che quando Tarconte giunse in Italia,utilizzò come unica arma la persuasione,e grazie alla forza e all’amore,egli riuscì a far comprendere alle popolazione che il loro bene,il mantenimento della pace all’interno della lega,si sarebbe mantenuto unicamente con il reciproco rispetto. Egli divise l’Etruria media in dodici “piccoli stati” che furono abitati da Lidii,Pelasghi,Raseni,Umbri ed Aborigeni. Dalla fraterna mescolanza di tutte queste stirpi nacque il popolo etrusco. Questa ripartizione dell’Etruria media,riscosse anticamente molti consensi,tanto da essere presa a modello e da guadagnarsi la stima dei moderni. Le dodici maggiori città dell’Etruria,furono abitate da quei Lidii che successivamente saranno chiamati Etruschi. Nella popolazione etrusca confluirono varie etnie,tra cui coloro che ottennero la supremazia sulle genti autoctone. Spettò dunque a questa nuova etnia gestire il dominio del territorio e lo fecero confederando i loro possedimenti attraverso un assetto governativo di tipo federativo. Questa scelta fu una vera e propria necessità,in quanto l’intera nazione era divisa in dodici stati e bisognava unire le forze per difendersi da eventuali attacchi nemici. Ogni stato tuttavia,sviluppò un governo interno,alla cui reggenza c’erano figure dell’aristocrazia nobiliare etrusca. A decidere le sorti della nazione etrusca,erano le assemblee di questi potenti governanti delle città confederate. Anche i giovani di Roma vennero istruiti da questi potenti Etruschi,specialmente in ciò che riguardava l’apparato sacro. I potenti dell’aristocrazia etrusca erano quei lucumoni che la tradizione volle eruditi in materia religiosa da Tagete in persona. Il grande potere che ebbero questi sacerdoti presso gli Etruschi fu tale da far in modo che nella gerarchia civile della nazione,non ci fosse posto per il popolo libero,venendosi a creare una sorta di feudalesimo.  A differenza di quanto avvenne in Grecia,in Etruria il titolo regio non era ereditario ma era una carica affidata loro a vita. Qualora si presentava l’occasione di un’azione comune,veniva eletto un solo lucumone gestire il comando ma era coadiuvato nelle imprese da un littore che ogni città gli inviava. Questo littore,il cui compito era di rappresentare la propria città,aveva come simbolo di potere, una scure chiusa da una serie di verghe ed era usanza etrusca che essi precedessero i magistrati in pubblico. La stessa precedenza nelle uscite pubbliche ,i littori ebbero anche in presenza del lucumone che deteneva il supremo comando nelle imprese. I potenti a cui era stato accordato il diritto di detenere il potere supremo,erano chiamati regi. Tuttavia,il reale potere di questi regi fu di gran lunga minore rispetto a quello dell’aristocrazia. La carica di lucumone fu affidata presso gli Etruschi al magistrato primario delle maggiori città della confederazione. Quando essi erano in carica,indossavano durante le loro uscite pubbliche ,un manto color porpora ed una toga ricamata. Avevano,inoltre,una corona d’oro,uno scettro sormontato da un’aquila e potevano sedere su un sedile curule ed erano tutti questi particolari segni, a distinguerli dai comuni cittadini. Ogni città etrusca,poi,nominava un sommo pontefice,il cui compito era quello di presiedere alle feste nazionali. Un governo organizzato in  federazioni,come quello etrusco,non fu senza problemi. I vincoli che legarono le singole città erano in gran parte solo apparenti,e mostrarono presto la loro debolezza. Tra le città non si verificarono lotte interne per la soggezione che l’aristocrazia ebbe su di loro. Nell’antica Toscana,non si registrò mai la classe plebea;sostanzialmente nella reggenza della nazione non vi fu mai una componente popolare. Di conseguenza,appare evidente che la classe dominante doveva godere di numerosi privilegi. Secondo il Muller,i coltivatori delle terre di Toscana,dovettero essere i servi dei proprietari terrieri ,la cui funzione può essere assimilata a quella corrispondente,in tempi successivi,ai Penesti in Tessaglia e gli Iloti a Sparta. Il numero di questi servi fu quasi certamente considerevole ma non è altrettanto chiaro se esso comprendesse gran parte della popolazione etrusca. Non si può dubitare delle condizioni di dipendenza in cui gli aristocratici etruschi tennero queste persone. Va tenuto presente,però, che la prosperità che investì l’Etruria,dovette quasi sicuramente essere sintomo del fatto che essa non fu governata tirannicamente. Di contro,non possiamo non ammettere che il popolo non fu mai agitato dal desiderio di democrazia,tanto da dover far preoccupare la classe dirigente. Le insurrezioni di cui ci hanno parlato gli storici,sono unicamente attribuibili agli schiavi. La società etrusca fu distribuita in tribù,curie e centauri,assetto che doveva farla apparire una città libera. La teocrazia del governo etrusco,prevedeva che il sacerdote fosse contemporaneamente ministro del culto e amministratore del governo civile. Tuttavia la ricostruzione esatta di come si svolgeva l’amministrazione della nazione presso gli Etruschi, risulta alquanto complessa. Dalle poche notizie in nostro possesso,apprendiamo che i deputati dei dodici stati della confederazione ,si riunivano in un concilio generale per decidere i più importanti affari della nazione ,e lo facevano presso un sacrario dedicato alla dea Voltumna. Questo luogo sacro fu chiamato Fanum Voltumnae,geograficamente posizionato nei pressi della selva Ciminia. Gli affari discussi nell’assemblea comune vertevano sulle modalità di difesa del territorio,sugli eventuali conflitti imminenti ,eccetera. Ognuna delle dodici città confederate,poteva scegliere liberamente il tipo di assetto governativo che preferiva,poteva autonomamente decidere di diventare una repubblica o una monarchia. Tutta la legislazione etrusca,comunque,cercò di non perdere mai di vista il fatto che ogni sua legge si basava su una norma divina essendo questa nazione governata teocraticamente,questo permetteva agli aruspici di rivelare al popolo che la terra che abitavano era dei numi. Inoltre gli aruspici rivelarono alle genti d’Etruria,che la loro nazione era stata di Giove,il quale se ne sarebbe appropriato per porre fine alla cupidigia umana. L’allegoria della favola di Giove,mirava a spiegare agli uomini l’importanza dei confini. Infatti la ripartizione del territorio,avvenne tramite termini invariabili e sicuri,i quali sancivano come cosa sacra,che il proprietario potesse reclamare a pieno diritto contro le usurpazioni. Il compito dei legislatori etruschi fu quello di far intendere al popolo che ogni provvedimento da loro preso,proveniva dai libri sacri ed era, quindi, frutto dell’autorità divina. Essi garantirono la concordia tra le città confederate attraverso le osservanze religiose,ponendo come garanzia di autorità del rito,un sacrificio. L’opulenza che ricoprì l’Etruria negli anni del suo massimo splendore non fu,tuttavia,che apparenza. Il benessere che essi raggiunsero fu per la maggior parte legato alla fertilità delle terre che abitarono. Ognuno sarà persuaso che tanta ricchezza,prima o poi porta necessariamente alla decadenza,in quanto tanta prosperità spesso accelera il percorso di declino,iniziando proprio dai costumi. L’opulenza iniziò a diventare terreno fertile per l’individualismo della classe governante,la quale pensava sempre meno al bene della nazione. I loro fasti giunsero al massimo dello splendore durante quel periodo di calma apparente in cui furono impegnati nei conviti,nel commercio e nella cura degli interessi nazionali. Per dilettare la nazione essi garantirono lo sviluppo delle arti,usarono rallegrarsi con i canti ed allestire sontuosi banchetti. Tuttavia questo stile di vita non era consono in una repubblica poiché il tempo di durata di una nazione che opta per un governo repubblicano era tanto più lungo quanto meno frivoli fossero stati i suoi costumi. L’assetto federativo della nazione etrusca,una volta raggiunto lo stato di benessere,non si interessò più verso la politica espansionistica,non ritenne importante fortificare le alleanze e l’unione tra le città confederate per mettersi in guardia dalla nascente repubblica romana. La nascente potenza romana,infatti,andava rafforzandosi ogni giorno di più.  Gli Etruschi erano talmente presi dalle loro opulenze,da non rendersi conto della debolezza della confederazione,del suo essere terribilmente vittima di un governo lento e diviso. Tutto ciò comportò che,trovandosi dinanzi ad un’imminente conflitto,anziché reagire con prontezza,essi parvero rimanere vittime di loro stessi e delle loro mollezze.
LE PERIZIE TOSCANE : IL COMMERCIO E LA NAVIGAZIONE
La storia insegna che il primo uomo che coltivò un campo per trarne dei frutti,che lo curò con amore e dedizione per poter fruire dei suoi prodotti,può considerarsi il fondatore del commercio. Per far fronte ai bisogni di coloro che iniziarono a coltivare,c’era bisogno che le forze si unissero,e fu per questo motivo che le famiglie si unirono,come pure le industrie e le conoscenze. Fu questa unione a rinsaldare i legami tra gli uomini,a fare in modo che essi preferissero la vita stanziale a quella nomade. Tuttavia una terra per quanto fertile possa esser stata,non poteva garantire tutti i prodotti di cui gli uomini necessitavano. Si venne quindi a creare una corrispondenza tra le genti,atta a poter soddisfare i bisogni e le mancanze.  Per gli scambi commerciali,il mare fu un ottimo canale di comunicazione. Le prime imbarcazioni furono molto semplici ed ebbero la forma di barchette e di zattere costruite in legno e giunco. Tuttavia la navigazione commerciale non interessò soltanto i mari ma anche i fiumi,principalmente i grandi corsi d’acqua navigabili,come ad esempio l’Eufrate. Questo fiume asiatico scorreva in quel territorio da cui si disse provennero i Raseni. Una volta acquisita la conoscenza della navigazione di questo importante fiume,dovette svilupparsi la vera e propria navigazione. L’introduzione della navigazione dei fiumi ebbe una grandissima importanza nella storia degli uomini,perché li avvicinava al mare ,dov’era più facile rifornirsi di cibo grazie alla pesca. Intuendo il vantaggio che avrebbero avuto dalla navigazione marittima e consci della grande risorsa ittica marittima,le prime popolazioni si spinsero al superamento di tutti gli inconsci timori. I Raseni,accresciuti e giunti nelle fertili pianure padane,doverono organizzare l’agricoltura in base alle nuove e maggiori esigenze.  Un reale progresso nella navigazione si era avuto con l’abbandono della Tessaglia da parte dei Pelasghi,i quali raggiunsero per mare la nostra penisola per approdare nella pianura padana mediante il valico delle Alpi. Dal racconto che ci ha lasciato Dionisio,sappiamo che essi giunsero nella penisola con una grande flotta e che imposero il loro dominio marittimo al largo del mare Ionio,difendendosi con atti di pirateria e dimostrandosi abili nel commercio. In questo modo,riuscirono a provvedere al sostentamento della città di Spina,una loro colonia. Stando a quanto ci riferisce Tucidide,la pirateria tirrena non fu un atto d’infamia verso i popoli che incontrarono ma fu uno dei tanti modi che conobbero per imporre la propria supremazia e per farsi onore. Probabilmente fu per questo motivo che nacque presso i Greci il mito secondo cui i Tirreni si sarebbero trasformati in delfini,in quanto era risaputa la compiacenza di questi pesci nel vedersi avvicinare delle navi,usanza  comune anche ai pirati. I Pelasghi fecero sostare i loro vascelli nei porti di Luni e di Populonia e fu da qui che signoreggiarono i mari. Successivamente,come ci raccontava Dionisio,essi stando a contatto con popolazioni d’indole bellicosa,acquistarono una notevole perizia nell’uso delle armi e rafforzarono la loro abilità nautica grazie alla coabitazione con i Toscani. La pirateria fu molto importante per i Tirreni,in quanto permise loro di scegliere il luogo dove abitare. Un ottimo luogo per compiere queste scorribande onorifiche,fu  la spiaggia di Faleri,sul mar Tirreno. Il fine delle loro scorribande non era solo di colpire i paesi della costa ma anche di pirateggiare contro i bastimenti che navigavano in mare.
IL COMMERCIO
Un popolo che raggiunse un grado così ragguardevole di civiltà,non poteva non essere abile nel commercio. Nel periodo di massima prosperità della nazione etrusca ,essi furono definiti il popolo mediterraneo più abile nel commercio,dopo Fenici,Greci e Cartaginesi. In tempi remoti,essi doverono trovare come intralcio allo sviluppo del commercio,la mancanza di porti adatti e l’incombente terrore della pirateria praticata dai Toscani. Stando a quest’ipotesi,un rapporto commerciale tra gli Etruschi e popolazioni straniere non debba datarsi troppo lontano e forse furono spronati a farlo dalle colonie greche. Il commercio era alimentato dalla moneta che essi dovettero sicuramente conoscere .Essa anticamente rappresentava o delle unità,o delle divisioni o delle molteplicità di uno stesso elemento numerale. Tutto questo sistema si riconduceva ai due tipi di dramme più famosi :quella egiziana,che pesava uno scrupolo e che fu sin da tempi remotissimi l’elemento primitivo di cui si componevano i pezzi d’oro, e la dramma attica ,che pesava uno scrupolo e mezzo  e che i Greci,come poi i Romani,usarono come “moneta  di conto” di cui si composero i loro pezzi d’argento. Attraverso l’uso della moneta,si effettuarono i  grandi scambi commerciali dell’antichità. Sappiamo ad esempio, che vi fu una fitta rete commerciale tra l’Italia settentrionale ed il nord,dove uno dei prodotti maggiormente esportati fu l’ambra gialla (l’electron),prodotto che ,stando ai racconti di Tacito,dalle fredde regioni del mar Baltico,raggiunse le regioni meridionali. La perizia commerciale degli Etruschi,non dev’essere stata messa in pratica solo grazie alle loro scorribande piratesche. Nonostante Cicerone fosse persuaso del contrario,le altre fonti attestarono anche scambi pacifici. In fondo gli Etruschi non poterono raggiungere tanta opulenza senza avere rapporti diplomatici con gli stranieri. Qualche dubbio resterebbe su come abbiano potuto coesistere due metodi così diversi di commercio. Probabilmente,la risposta a questo dubbio sta nei trattati che i Toscani ebbero con le singole nazioni greche. Sappiamo,d’altro canto,che gli Etruschi furono molto ospitali con gli stranieri e che essi strinsero contratti con i Cartaginesi. Naturalmente anche questi trattati ebbero delle restrizioni. Ad esempio ai Toscani fu interdetto intraprendere azioni commerciali in Sardegna. L’isola che un tempo fu di loro dominio,successivamente passò nelle mani dei Cartaginesi. Inoltre,il commercio marittimo degli Etruschi,toccò con sicurezza le coste ioniche della Calabria,in quanto furono documentati degli scambi fra i Toscani e la città di Sibari. Gli atti di pirateria furono messi in atto con ogni probabilità,contro coloro che usavano violenza o sovvertivano le regole sancite dai trattati. Le ricostruzioni del commercio etrusco non sono totalmente accertate. Conoscere i rapporti commerciali che i Toscani ebbero ad esempio con le città greche è impresa ardua. Sappiamo che i bellicosi etruschi,furono in contrasto con la città di Siracusa ma strinsero buoni rapporti con gli Ioni di Mileto e con i Sibariti. Una delle più importanti città etrusche,Cere,fu tenuta in gran considerazione dai Greci,presso i quali si fece onore per il suo essersi astenuta dalla pirateria,guadagnandosi,per altro,il titolo di città virtuosa e giusta. Gli scrittori antichi,parlarono dell’importanza di alcuni porti della nazione etrusca per il ruolo che essi svolsero nel commercio. Essi menzionarono,ad esempio,quello della città di Luni. Strabone raccontò dell’eccellenza e della sua ottima posizione,specialmente per la presenza di tanti piccoli porticcioli con altrettanti canali,funzionali ad accogliere la flotta di una nazione molto esperta nell’arte del navigare.  Altro punto di forza per il rafforzamento della marina etrusca fu il porto di Pisa. Fu da qui che si narrò fossero uscite le migliori flotte toscane. Anche i guadi volterrani furono molto importanti per l’abile marina etrusca. Uno dei porti maggiori della nazione etrusca fu Populonia,dove esisteva un porto –attualmente porto Baratti- dove sorsero case da naviganti. Tuttavia,il porto che maggiormente incantò gli antichi per bellezza,fu quello di Argo sull’isola d’Elba,il cui nome era dovuto al fitto commercio che da qui i sviluppò con la Grecia.Anche il nome di un altro importante postazione marittima etrusca,trae il suo nome dalla mitologia. Talamone,infatti,lega il suo nome al mito degli Argonauti. Se importanti snodi commerciali furono le città di Orbetello,Ansedonia eccetera,poco utile allo sviluppo del commercio fu Tarquinia. Volendo restringere il campo d’indagine sui maggiori centri commerciali toscani,potremmo far salire sul podio Pisa,Populonia e Cere. Sui porti etruschi nell’Italia settentrionale e in Campania abbiamo pochissime notizie. Potremmo solo ricordare che i Toscani che si stanziarono in Campania,stabilirono rapporti commerciali coi Greci principalmente per due motivi: per l’ambizione di ottenere un maggior guadagno e per paura di essere vittime di azioni ostili. I vascelli etruschi erano nella forma assai simili ai Greci. Lo studioso scozzese Dempstero,rifacendosi ad una notizia di Plinio,riferisce che un etrusco proveniente dalla città di Pisa,introdusse il rostro nelle navi e l’ancora,in quanto entrambi questi elementi comparvero in monete ritenute italiche ,probabilmente usate dagli Etruschi . Nell’arte della navigazione,i Toscani furono molto esperti. Ad essi furono attribuite numerose invenzioni nautiche delle quali si rivelarono assai gelosi. Il commercio marittimo etrusco,oltre a toccare le coste tirreniche,abbracciò tutta l’area mediterranea. La merce che essi esportavano,proveniva quasi esclusivamente dal loro territorio,come ad esempio frumento di spelta ed altre varietà di biade. Oltre a prodotti alimentari,essi commerciarono legname e metalli ma anche cera,pece e miele,di cui si rifornivano sulle coste della Corsica. Naturalmente, il commercio dei Toscani, non si basava solo sulle esportazioni ma anche sulle importazioni. Essi acquistavano l’avorio sulle coste settentrionali dell’Africa. Gli Etruschi,oltre a sviluppare un commercio estero,ebbero una fitta rete commerciale interna. Le assemblee delle dodici città etrusche presso il tempio di Voltumna,oltre alla loro funzione politica,erano anche un momento di aggregazione per la popolazione. Infatti lì,contemporaneamente,si svolgevano delle fiere e,nei tempi in cui la nazione era impegnata in guerra,dalle contrade accorrevano numerosi mercanti. Un altro mercato molto importante nella nazione etrusca fu quello che si svolse nel bosco di Feronia,nei pressi del monte Soratte ,al confine con i possedimenti dei sabini. L’affluenza dei cittadini al santuario,era animata dalla grande devozione di tutti gli strati della popolazione per la dea. Fu attraverso queste fiere che gli stranieri ebbero modo di portare via merci e pezzi d’arte etruschi. Tuttavia ,una più precisa idea di come si svolgesse il commercio interno etrusco ,possiamo trarla dalle monete che circolarono nella nazione. In tempi remoti,in Etruria -come accadde successivamente a Roma- circolò una moneta rozza ,perlopiù in rame,sulla quale non vi era inciso alcun simbolo. Successivamente,i Toscani sentirono l’esigenza di inserire su queste monete dei segni,e s’ingegnarono per pensare a qualcosa che rappresentasse o le loro origini,o la loro storia, o la loro religione. Inizialmente,le monete ebbero forma quadrata e,alcuni degli esemplari che ci sono giunti,mostrano effigiati i numi tutelari della città dove fu coniata. Successivamente,la forma divenne rotonda. Le monete più antiche furono in rame,non battute ma fuse ed aventi peso di dodici once.
DALLA FORTUNA AL DECLINO
Nel corso dell’VIII sec. a.C.,i Toscani erano gli unici nel panorama italico ad essere in grado di mettere in atto una vera e propria politica espansionistica. Essi,in realtà erano animati più dal desiderio di migliorare la loro già rosea situazione economica,che dalla sete di dominio. Il momento di massimo splendore della potenza etrusca, ebbe luogo nel VI sec. a.C.,quando riuscirono ad ottenere il dominio anche delle isole,controllando l’intera area tirrenica. Espandendosi nel bacino mediterraneo,essi entrarono in contatto con i Cartaginesi ed i Greci dell’Italia meridionale,i quali erano tra tutti,il nemico più temibile. A nord,avevano i Celti ma la loro presenza non impensieriva i Toscani. Alleandosi con i Cartaginesi,gli Etruschi riuscirono a fronteggiare la minaccia greca proveniente dal meridione italiano,impedendo loro di espandersi sia sulla terraferma che in mare. Tuttavia,durante la seconda metà del V sec. a.C.,lo scenario politico cambiò in maniera radicale. Le città etrusche ,dopo aver raggiunto un considerevole sviluppo economico,erano statiche. Di contro,le colonie greche nel meridione italiano,iniziarono a svilupparsi rapidamente sia da un punto di vista economico che culturale. Inoltre,i pericoli che incombevano sulla nazione etrusca non erano legati esclusivamente alla minaccia greca;anche dal confinante Lazio proveniva uno dei grattacapi più seri per i Toscani. Infatti,la vicina Roma,stava progredendo rapidamente,liberandosi dal dominio etrusco e guadagnando autonomia e forza. Il declino etrusco ,può essere datato all’incirca intorno al 474 a.C. in un emblematico scenario,quello marittimo. I Greci dell’Italia meridionale,capeggiati dalla città di Siracusa,sconfissero i Toscani presso Cuma,guadagnando così il controllo del bacino tirrenico. Gli Etruschi,però,non persero solo in mare ma subirono attacchi anche sulla terraferma. Le conquiste toscane in Campania,furono rivendicate dalle popolazioni locali,mentre i domini etruschi nel Settentrione d’Italia,furono invasi da tribù celtiche d’Oltralpe. Nel corso del IV sec. a.C.,il potere commerciale e militare degli Etruschi,andò scemando in quanto ,le città confederate,finirono per ridursi ad isolate città-stato. Infine,nel III sec. a.C.,le varie città,furono chiamate in causa per difendersi dagli attacchi della neonata potenza romana. Mancando di identità nazionale,le città della confederazione etrusca,non riuscirono a mettere insieme le loro forze e vennero sconfitte. La confederazione etrusca,perdendo l’indipendenza politica,perdeva contemporaneamente prestigio. Dopo i conflitti con Roma e la lenta ma definitiva capitolazione di tutte le città etrusche,nell’80 a.C. i suoi abitanti divennero cittadini romani a tutti gli effetti. Lentamente,tutta la cultura toscana andò a scomparire,contaminandosi con quelle dei nuovi dominatori. Tuttavia,gli Etruschi,lasciarono in eredità alla nuova potenza romana,moltissime usanze. Tra gli emblemi di questo trasferimento culturale,possiamo annoverare la Lupa Capitolina e il fascio littorio tra i simboli esprimenti potere ma anche opere di bonifica e di miglioria urbanistica come la Cloaca Massima. I Romani,inoltre,ereditarono dagli Etruschi,alcuni allenamenti ginnici (ad esempio il pugilato) e dei ludi. Gli Etruschi ,tuttavia,nonostante confluirono lentamente nella famiglia allargata dei Romani,non smisero mai di affascinare il mondo erudito grazie,soprattutto,all’enigma che avvolse la loro storia e la loro cultura. La loro indole creativa e dinamica non scomparve totalmente con la dominazione romana,ma si impresse ,si radicò nei caratteri dei Toscani e nella loro genetica,giungendo sino a noi e rendendo ancor più verosimile quel carattere di mistero che ha da sempre accompagnato il loro nome.

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